Interindipendenza, idea di mondo nuovo
Cambiare le sorti dell'umanità intrappolata
Questo neologismo, che al contempo è paradosso e sintesi efficace, esprime uno stile di vita: indicazione per cambiare le sorti dell'umanità intrappolata fra consumismo e crisi ambientale globale. Si dice che viviamo nell'era dell'antropocene, a indicare l'impatto fortissimo che l'attività umana ha sul pianeta e sull'intero ecosistema. Come ha scritto il filosofo Bernard Stiegler «L'Antropocene è insostenibile: si tratta di un processo di distruzione massiccia, incalzante e planetaria, il cui corso deve essere rovesciato ». La stessa pandemia, dalla quale stiamo faticosamente cercando di uscire, non è affatto estranea a questo processo. Nello stesso tempo, la cesura che si è verificata su scala globale, al di là delle retoriche miopi sulla 'ripartenza' apre la possibilità di istituire una vita nuova, a partire da ciò che il virus ci ha permesso si comprendere, se vogliamo vederlo. La prima lezione del virus è che nessun uomo è un'isola, come scriveva John Donne. Siamo tutti legati, prima di tutto col respiro che è soffio, vita, spirito, psyché. Tanto che per bloccare il contagio dobbiamo distanziarci, separarci, e viviamo questo come innaturale e doloroso. Siamo relazione, e la relazione ci precede e ci sostiene. È nelle relazioni e grazie a esse (non solo con chi incontriamo, ma con chi ci ha preceduto, con chi verrà dopo, con l'ambiente...) che diventiamo chi siamo: è il processo, mai concluso, che va sotto il nome di individuazione, contrapposto al costrutto rigido e divisivo dell'identità. Ma siamo anche unicità irripetibili, chiamati a rispondere in modo libero alle circostanze che non abbiamo scelto, che ci condizionano senza però determinarci. Legame e libertà sono tra le rivelazioni del virus, così come il loro rapporto paradossale, che non è di opposizione bensì di composizione.
Chiamiamo questo paradosso 'interindipendenza', un neologismo che consente di uscire dall'alternativa astratta e fuorviante tra indipendenza (che non riconosce il legame) e interdipendenza (che non riconosce il contributo delle unicità). Il virus ci ha messo in condizione di smascherare tante false alternative, tante opposizioni apparentemente irriducibili che però nella concretezza della nostra esperienza di questi mesi abbiamo sperimentato come congiunte: in questo senso il virus ha contribuito a destituire i dualismi riduttivi e a istituire una nuova epistemologia della complessità. Ragionare in termini di interindipendenza, ovvero di connessioni, implicazioni, interferenze e sinergie, dischiude un orizzonte di comprensione e di azione cruciale per poter immaginare nuove vie di rigenerazione, anziché vagheggiare una ripartenza impossibile e ottusa al cambiamento necessario e possibile. Paradossalmente la prossimità quotidiana alla morte ci ha fatto sentire più intensamente la vita, così come le tante limitazioni (nella mobilità, nella socialità, nelle attività dalla scuola al lavoro) hanno riacceso il desiderio, mobilitato risorse e attivato capacità di rispondere in modo inedito e creativo alle sfide della situazione. Chiamiamo 'responsività' la capacità di rispondere non solo delle proprie azioni, nella consapevolezza che ogni atto personale può aver conseguenze su altri e sull'ambiente, ma anche al legame che ci unisce, alla interindipendenza che ci costituisce. E in questa risposta nuove forme sociali hanno preso corpo, grazie a quella che Roberto Esposito chiama «la potenza istituente della vita », la institutio vitae: «Cosa altro è, del resto, la vita se non istituzione continua, capacità di rigenerarsi lungo percorsi inediti e inesplorati?». La forza della vita è capace di 'metastabilizzare' le istituzioni, nel duplice senso di dinamizzare quelle esistenti e di far sedimentare forme nuove, nella consapevolezza del divenire che le caratterizza. La forza della vita, che si esprime come ciò che corre tra noi e ci lega, fa sì che l'istituente prevalga sull'istituito e che nuove alleanze, anche temporanee, ma capaci di responsività al legame, prendano forma, rigenerando il tessuto sociale.
Lo si è visto bene nella fase più critica della pandemia, proprio nel cuore delle zone più 'rosse', dove le comunità hanno superato gli steccati ideologici e generazionali e si sono inventate modus vivendi, «prassi istituenti» come le chiama il filosofo Merleau-Ponty, capaci di rispondere collettivamente e in modo positivo alle sfide di un presente drammatico. E migliorando, nonostante tutto, la qualità della loro vita. Si tratta di un'idea di partecipazione che rovescia la prospettiva 'consumista' di 'prendere parte', rivendicando un diritto, e adotta invece una postura contributiva, un 'dare parte' che moltiplica gli apporti individuali rendendo possibile l'inedito e trasformando le criticità in occasioni di rigenerazione collettiva positiva. L'eccentricità, lo spostare il baricentro fuori di sé, la contribuzione, l'eccedenza, abbandonare la misura stretta del calcolo costi-benefici attivano dinamiche istituenti. La vita che trabocca, e che non si rattrappisce in una chiusura difensiva, istituisce. Sono le azioni locali, concrete, capaci di contrastare il caos, la rassegnazione, la frammentazione e la standardizzazione (tutte dimensioni dell'entropia, enormemente cresciuta nell'era dell'Antropocene), con il supporto di ambienti digitali che favoriscano la connessione e la contribuzione, che possono rinnovare dal basso, e a partire da collettività situate (eredi dei 'corpi intermedi') le condizioni del nostro vivere insieme, superando la sterile opposizione tra la rigidità delle istituzioni stabilizzate e la fluidità destabilizzante dei movimenti di protesta. (Avvenire)
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