religione

La rivoluzione mendicante francescana e domenicana

Franco Cardini Pixabay
Pubblicato il 23-03-2021

Nella società del laicato e del clero vennero i monaci

Nel medioevo in Europa, contrariamente a quanto s' immagina, «c' erano pochi preti». Proprio così. Alla lettera. Pochi rispetto la numero della popolazione; e pochi in assoluto. Il che, del resto, si spiega. Non che per fare il prete ci volesse un' elevata istruzione: non, almeno, fino al X-XII secolo allorché, dopo un' energica riforma avviata da alcuni ambienti imperiali e quindi episcopali, sulle prime soprattutto tedescooccidentali (franconi, sassoni, burgundi, renani, alamanni), ed egemonizzata da quella splendida macchina da guerra religiosa, tecnologica e produttiva che fu l' abbazia benedettina di Cluny in Borgogna, il clero soprattutto basso cambiò del tutto aspetto uscendo dalla pessima taciturnitas e dal semianalfabetismo che lo aveva caratterizzato nei secoli almeno tra VI e VIII (già una precedente riforma però, guidata dalla corte di Carlomagno, aveva fatto molto). Quanto all' alto clero, almeno fino ad appunto il X secolo vescovi e abati erano di solito grandi aristocratici a loro volta di limitatissima cultura biblica, letteraria e giuridica, ma che sapevano bene amministrare la terra, guerreggiare e cacciare. Dopo la cosiddetta «Riforma dell' XI secolo'» (da un po' si evita di definirla, unilateralmente e in fondo riduttivamente, 'gregoriana': da Gregorio VII, il monaco cluniacense Ildebrando di Soana) il quadro cambiò: vescovi e abati restarono sovente spesso dei gran signori ma divennero più colti e più attenti alla morale cristiana; mentre i preti cominciarono ad essere più preparati e si andò restringendo se non proprio scomparve il fenomeno delle Eigenkirchen, il fenomeno delle 'chiese private' il clero delle quali era spesso scelto dal dominus loci con criteri politici ed economici ma non religiosi, né pastorali. La cura animarumebbe la sua parte nel miglioramento intrinseco dei sacerdoti e delle loro relazioni con i parrocchiani, mentre le 'visite pastorali' vescovili cominciarono a permettere un più chiaro quadro della situazione sociale e religiosa.

I preti, però, continuavano a essere pochi: a tanto più tali erano quanto più avevano potere e prestigio: sulle anime anzitutto, amministrando i sacramenti e conoscendo i segreti dei cuori grazie alla confessione orale e individuale; ma anche sulle persone dei loro parrocchiani in senso generale in quanto le chiese si mantenevano spesso grazie ai proventi delle terre di pertinenza parrocchiale oltre ai doni e alle devoluzioni testamentarie; dal terzo quarto del XIII secolo, poi, il capillare sistema delle 'decime' intervenne - sia pure con tutti gli abusi e gli errori che lo accompagnarono - a regolare ancora di più la vita comunitaria della christiana societas Quest' ultima, d' altro canto, s' identificava con la Chiesa stessa. Societas, idest Ecclesia, sed permixta, secondo una massima d' origine agostiniana che sottolineava l' identità tra società e Chiesa e quindi l' equivalenza tra l' essere membro della prima e della seconda: un' identità che si sottolineava di solito - e si continuò a farlo almeno fino al Duecento - con una sola parola, fidelis, che qualificava un rapporto di gerarchia all' interno della società civile come, con diffe- renti caratteri, della comunità dei credenti. Solo più tardi il termine civis, d' antica tradizione latina, rientrò nell' uso, insieme con la rinascita del diritto romano a partire dal pieno XII secolo.

Ma la christiana societas idest Ecclesia si scandiva nei due livelli del laycatus, il 'popolo di Dio', e del clerus, la 'parte', la 'porzione dell' altare'. In una società che si riconosceva come scandita negli oratores che pregavano e studiavano, nei bellatores che combattevano e amministravano la giustizia e nei laboratores che contribuivano alla vita comune per mezzo della loro fatica fisica, in latino labor - che almeno fino al XII-XIII secolo era essenzialmente agricolo e silvopastorale, con pochi ed essenziali elementi artigianali e manifatturieri - il clerus era limitato al primo ordine: i sacerdoti ne erano al vertice (anche i vescovi, lo stesso papa altro non erano se non sacerdoti), ma per diventar sacerdote si doveva ascendere iniziaticamente al rango di amministratore del Sacro e di dispensatore dei sacramenti attraverso i gradini dei quattro ordines minores - ostiarius, lector, exorcista, accholitus -, tanti quanti erano le virtù cardinali, e i tre maggiori - subdyaconus, dyaconus, presbyter o sacerdos. Il clericus era ben distinto dal laycus, né poteva esser giudicato sia tribunali ordinari bensì da quelli ecclesiastici: e i chierici erano moltissimi, per esempio tutti gli studenti universitari erano tali.

Questo, però, non bastava ancora. Quanto sopra corrispondeva al claerus saecularis, che stava al contatto con il saeculus, cioè con la gente, con il 'mondo'. Fino dal I-II secolo d.C. si era però fatta strada fra i credenti un' esigenza diversa: quella di vivere lontani dal mondo e dalle sue cure, di non esserne contaminati, di cercare luoghi e di conseguire generi di vita nei quali le preoccupazioni mondane fossero ridotte al minimo e in cui si potesse meglio ascoltare la voce divina. Quanti sceglievano questo cammino erano detti monachi (dalla parola greca monos, 'solo'), e potevano scegliere tra la vita del tutto solitaria (gli 'anacoreti') - secondo moduli che sembrano esser provenuti dalla Siria o dall' Egitto e dall' Etiopia o anche da più lontano, fino alla stessa India - e quella, già mitigata, della comunità separata dal resto del mondo (i 'cenobiti'). Rispetto alla tradizione orientale che privilegiava la prima formula, la Chiesa latina, cioè occidentale, scelse - con una qualche eccezione peraltro relativa al mondo celtico, creatore di una civiltà monastica del tutto speciale - la seconda, con cenobi detti 'monasteri' nei quali si viveva in comunità secondo una normativa stabilita da una versa e propria 'carta di fondazione', la Regola. Fu Benedetto da Norcia il grande iniziatore e il primo abate (da abba, 'padre') dell' Ordine che da lui si denominò 'benedettino'.

Di recente un grande medievista dell' Università di Dresda, Gert Melville, si è assunto l' incarico di far uscire la storia della società ecclesiale dall' universo dei solenni, enormi manuali scientifici e al tempo stesso di sintetizzarne in termini rigorosamente accademici e specialistici una vicenda troppo spesso ridotta in termini divulgativi: essa attraversa l' intero medioevo giungendo, dalla narrazione delle fondazioni monastiche tradizionali, all' esposizione - vivace e affascinante - della 'rivoluzione mendicante' di Francesco d' Assisi e di Domenico di Caleruega, parallela al prepotente insorgere del fenomeno urbano occidentale con le sue connotazioni sociali ed economiche, e quindi alla nuova 'rivoluzione umanistica' che fra XIV e XV secolo pose le basi per la Chiesa moderna, con la crisi della Riforma e la sua composizione in una nuova realtà. Il suo solido e al tempo stesso piacevolissimo Le comunità religiose nel Medioevo. Storia e modelli di vita (Morcelliana, pagine 475, euro 32) offre un quadro della Chiesa e della società medievali veramente ampio, approfondito ed esaustivo: merito non solo dell' Autore, senza dubbio, ma anche dell' attento curatore dell' edizione italiana, Nicolangelo D' Acunto dell' Università Cattolica di Milano, sezione di Brescia, allievo del grande Cinzio Violente e sodale pertanto di studiosi illustri quali Cosimo Damiano Fonseca e Giancarlo Andenna. Un libro così mancava nel panorama bibliografico fruibile in àmbito universitario, ma senza dubbio contribuirà anche a chiarire molte idee e a sgombrare il campo da molti pregiudizi presenti nello stesso mondo di oggi, sia cattolico sia - come si dice con un aggettivo francamente poco appropriato - 'laico'. (Avvenire)

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