La prima libertà è quella religiosa, ecco il documento
È un documento denso, articolato e che necessiterà un’adeguata ruminatio quello diffuso ieri e partorito dalla Commissione teologica internazionale (Cti), La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee. Non si presenta come un trattato, ma come una «riflessione teologico-ermeneutica»: sette capitoli in trentasette pagine, nella versione a stampa, frutto di quattro anni di lavoro (2014-2018) di una sottocommissione apposita della Cti, impegnatasi in una rilettura della Dignitatis humanae, la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa appunto, alla luce del contesto storico attuale.
Ma qual è in particolare, viene da chiedersi, la causa di questa importante puntualizzazione? Lo ha specificato ieri sull’Osservatore Romano il domenicano Serge Bonino, uno dei membri della sottocommissione Cti: «In un contesto storico vicino a quello della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), il Concilio, mediante l’affermazione del diritto alla libertà religiosa, intendeva rispondere a una doppia sfida: ridefinire il modo di presenza e di cooperazione della Chiesa nelle società politiche contemporanee; difendere il valore della persona umana minacciato dalle ideologie totalitarie e criminali del Novecento».
Gli Stati totalitari non sono scomparsi, tuttavia, sottolinea sempre Bonino, «il fenomeno culturalmente più rilevante» oggi «è la deriva dello Stato democratico liberale verso un “totalitarismo morbido”, che risulta dalla crisi dei fondamenti sostanziali della democrazia. Infatti, i valori umanistici, spesso di origine cristiana, che hanno plasmato e nutrito l’avventura storica delle democrazie moderne, tendono a svanire. Si sviluppa allora una democrazia formale e procedurale che pretende di prescindere dai valori sostanziali, etici e religiosi, che offrono vita e dinamismo alle società civili».
Tra i cortocircuiti della libertà religiosa il documento cita e stigmatizza anche il rinascente «fanatismo» o fondamentalismo religioso, ma lo inquadra come «reazione alla debolezza umanistica del sistema», ovvero «la pretesa neutralità ideologica di una cultura politica che dichiara di volersi costruire sulla formazione di regole meramente procedurali di giustizia, rimuovendo ogni giustificazione etica e ogni ispirazione religiosa» e mostrando così «la tendenza ad elaborare una ideologia della neutralità che, di fatto, impone l’emarginazione, se non l’esclusione, dell’espressione religiosa dalla sfera pubblica».
C’è molto nel documento, da una digressione storica sui rapporti tra la Chiesa e le autorità politiche nell’impero romano, al valore del dialogo interreligioso, a una sintesi del magistero, in merito al tema trattato, dei Pontefici del post-Concilio, da Paolo VI a Francesco. C’è soprattutto però la riaffermazione di alcuni capisaldi della posizione cattolica. La libertà religiosa come «fondamento di tutte le altre libertà». Il concetto di «laicità positiva», quella di uno Stato «che non solo sviluppa logiche di cooperazione reciproca fra le comunità religiose e la società civile, ma si mostra capace di attivare la circolazione di una cultura adeguata della religione».
Il richiamo ai cattolici, che non possono considerarsi semplicemente membri di una polis neutrale su piano dei valori: «Quando i cristiani passivamente accettano questa biforcazione del loro essere in una esteriorità governata dallo Stato e una interiorità governata dalla Chiesa, essi, di fatto, hanno già rinunciato alla loro libertà di coscienza e di espressione religiosa».
Quindi il richiamo allo Stato a «riconoscere il diritto delle persone all’obiezione di coscienza» e ancora ai credenti a non dimenticare il martirio come «suprema testimonianza non-violenta della propria fedeltà alla fede», «caso-limite della risposta cristiana alla violenza mirata nei confronti della confessione evangelica della verità e dell’amore di Dio, introdotta nella storia – mondana e religiosa – nel nome di Gesù Cristo». AVVENIRE
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