Il Sole 24 Ore, Ravasi: Perché diciamo «Ego te absolvo»
Il ministro della Chiesa si sovrappone a Dio ma non lo sostituisce
Forse qualche lettore ha di questo sacramento un pallido ricordo di quand’era ragazzo e si preparava a ricevere la prima Comunione. Certo quel nome «penitenza» e forse lo stesso rituale segreto nel buio del confessionale, gli assegnavano un profilo punitivo, edulcorato ma non troppo nell’altro titolo, «confessione», dai risvolti intimisticopsicologici. L’attuale denominazione di «sacramento della riconciliazione» lo rende più sereno, soprattutto se raccordato all’abbraccio festoso che sta nel cuore della celebre parabola del figlio prodigo nel peccare e del padre prodigo nel perdonare (Luca ¬15,¬¬11-32), parabola inchiodata nell’immaginario di tutti attraverso la mirabile tela di Rembrandt, custodita ora all’Ermitage. Si deve anche aggiungere che nella memoria collettiva cattolica quel sacramento è affidato a una formula latina altrettanto famosa: Ego te absolvo. Essa è adottata come titolo dal saggio del teologo protestante Paolo Ricca, appassionato artefice del dialogo ecumenico e studioso di grande nitore intellettuale e stilistico. È il caso anche di questo suo scritto che reca proprio in copertina le domande capitali che reggono il libro, dedicato «alla colpa e al perdono nella Chiesa di ieri e di oggi»: «Con l’Ego te absolvo, il sacerdote esercita legittimamente il mandato di Cristo o si attribuisce un potere che non ha? La Chiesa ha la facoltà di perdonare i peccati o il suo compito è esclusivamente quello di annunciare il perdono, che resta prerogativa esclusiva di Dio?».
È necessario spazzar via subito un sospetto che può allignare nei nostri lettori cattolici: non sarà che un protestante abbia già in premessa il dente avvelenato nei confronti di un sacramento così «cattolico»? Ovviamente è solo seguendo l’itinerario storico-teologico del testo - un percorso per altro limpido nel dettato e attraente nonostante il tema (o forse proprio per questo) - che si scopre la chiarezza interpretativa e la pacatezza dei giudizi, sia pure senza escludere le differenze dell’approccio e delle interrogazioni rivolte ai testi biblici e, quindi, la possibilità di un contrappunto e di un confronto, anche dialettico tra cattolici e protestanti. Certo è che può sorprendere la voce ineccepibile di Lutero che in suo sermone del 1522, pur venato di polemica col papa, non esitava a dichiarare: «Non voglio che qualcuno mi tolga la confessione segreta, che non cederei per tutto l’oro del mondo, sapendo quale consolazione e forza mi ha dato. Nessuno, tranne chi abbia lottato col diavolo, sa che cosa essa possa fare, e il diavolo mi avrebbe ucciso già molto tempo fa, se a sostenermi non ci fosse stata la confessione». Ma ritorniamo agli interrogativi di partenza.
Lasciando tra parentesi la lunga e molteplice riflessione che si è ramificata a partire dal mandato di Gesù, reiterato a Pietro e agli apostoli sul «legare e sciogliere» (Matteo ¬16,19 e ¬18,18), che diventa esplicitamente nel Vangelo di Giovanni un «perdonare i peccati» (20,23), la risposta deve porre al centro la figura di Dio che è il protagonista supremo del perdono. Esso, però, nella logica stessa dell’Incarnazione - che suppone la storicità visibile, udibile, palpabile della Parola divina (è ancora san Giovanni nella sua Prima Lettera a ricorrere a questa «fisicità» teologico-ecclesiale) - si attua attraverso la Chiesa e il suo ministero. La formula Ego te absolvo, coniata nell’XI secolo, cristallizza questo intreccio divino-umano. Come scrive lo stesso Ricca, «l’ego del ministro della Chiesa si sovrappone a quello di Dio, non per sostituirlo, ma per rappresentarlo, per fungergli da vicario». Tuttavia egli è restio ad avallare questa formula, proponendo alternative più articolate nel definire i due attori necessari in questione: il protagonista fondamentale, Dio, e la Chiesa nella sua funzione ministeriale. Essa si basa sulla netta missione consegnata, nel quarto Vangelo, agli apostoli dal Risorto, testo a cui abbiamo già sopra alluso: «A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Giovanni 20,23). Certamente nei Concili successivi, il Lateranense IV (1215) e il Tridentino (1545-1563) la codificazione giuridica di questo nesso ha prevalso sull’aspetto più antropologico-spirituale. Il Vaticano II e l’attuale rituale liturgico hanno ricentrato in modo più armonico quella interconnessione, e Ricca riconosce che ciò è avvenuto attraverso «l’innesto della riconciliazione nel mistero pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo.... e attraverso la partecipazione attiva della Chiesa alla conversione del penitent... con la carità, l’esempio e la preghiera». Usando un termine caro da sempre alla teologia e di facile comprensione se si bada alla matrice greca Theós, «Dio», e anèr, «uomo», cioè l’aggettivo «teandrico », si riassume la struttura non solo di questo ma di tutti gli altri sacramenti della Chiesa.
Tuttavia non poche sono le questioni che sbocciano come corollari e su di esse possono marcarsi le sfumature, le diversità interpretative e persino le distanze secondo gli approcci «confessionali» (nel senso delle varie Chiese cristiane). Dati i limiti e il taglio della nostra lettura, che non è certo una recensione per una rivista teologica, segnaliamo invece solo un paio di temi aperti di indole più generale. Il primo riguarda la sorprendente affermazione di Gesù nel «Padre Nostro»: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (nell’ebraico e nell’aramaico un unico termine, hoba’, designa il «debito» e il «peccato »). Il perdono umano è condizione-premessa per ottenere il perdono divino? Oppure, all’inverso, si deve intendere: «Come tu, o Dio, perdoni, così perdoneremo anche noi»? O ancora, Gesù accosta semplicemente i due perdoni, rendendoli paralleli, senza dipendenze causative? Ricca conclude: «Comunque si voglia interpretare il nesso tra perdono divino e quello umano, è importante per Gesù che si riconosca che i due perdoni sono indissolubilmente legati tra loro».
L’altro tema lo scegliamo in mezzo al florilegio di conclusioni che costituiscono l’epilogo del saggio ove si ribadisce che il perdono dei peccati è il cuore del messaggio cristiano ed è «il più grande mistero del mondo», e si abbozza una sintesi dei vari fili della trama teologica del testo. Ebbene, uno di questi fili è affidato a un’ulteriore domanda abbastanza rovente ai nostri giorni più «amorali» che «immorali»: «Come dire oggi il peccato?»; in subordine, come dire «laicamente », in una cultura che l’ha appunto accantonata nel ripostiglio polveroso del passato, questa categoria necessaria personalmente e comunitariamente? La scelta del nostro autore è basata sul lessico biblico greco del peccato (hamartía), ma la cosa vale anche per l’ebraico (hatta’t), ove il rimando è al «fallire il bersaglio». Il peccato, allora, significa «non capire il valore della vita, non riuscire a darle un contenuto che le dia significato. E questo sia nel rapporto con noi stessi, sia col prossimo, sia con Dio. È peccato fallire il bersaglio della vita, sciupare l’occasione unica che essa costituisce ».
Lasciamo, comunque, ai lettori aperta la strada per declinare oggi ulteriormente questo vocabolo e per continuare ad allargare - attraverso il saggio di Ricca - l’approfondimento della complessità di un trinomio che travalica il celebre binomio dostoevskiano: delitto - castigo - perdono. Come posso attestare a livello personale, senza che faccia velo la stima e amicizia che ho per lui, Paolo Ricca non è solo un importante teologo (pochi possono fregiarsi della laurea honoris causa della prestigiosa università tedesca di Heidelberg) ma è anche pastore. È, perciò, molto suggestivo ascoltare la sua predicazione raccolta in ¬17 sermoni di intensa spiritualità, distribuiti sul canovaccio dell’anno liturgico.
Sono parole che, però, corrono anche per le strade e le piazze della modernità, che ascoltano le voci e le attese di tanti uomini e donne in ricerca, che sono trasparenti alla luce che irradia dalla figura di Cristo. Citando l’amato teologo martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer, il pastore ricorda che «la fede è vivere davanti a Dio; la speranza è vivere in vista di Dio; ma l’amore è vivere in Dio» così che, «già in questa vita fugace, l’amore è la culla dell’eternità». Da Il Sole 24 Ore del 28 Febbraio 2021
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