IL PAPA CON L’IMAM
Il viaggio del Papa nella penisola arabica, culla della rivelazione coranica, si svolge sul filo di una ricorrenza centenaria, spesso evocata come cifra di una fraternità possibile fra cristiani e musulmani in terra d’Islam. La ricorrenza è quella dell’incontro avvenuto a Damietta nel 1219 fra Francesco d’Assisi e al-Malik al-Kamil, il “Sultano perfetto”. I dati storici che conosciamo su quel contatto singolare sono scarni. È abbastanza certo che Francesco sia andato in Egitto durante la quinta crociata. I Cavalieri erano approdati sul delta del Nilo perché, dopo aver cercato di conquistare Gerusalemme nel 1217, s’erano spostati in Egitto a caccia di terre pregiate, da scambiare, si diceva, con la città santa. Francesco li raggiunge da Ancona, mentre cingono d’assedio Damietta.
Predica nel campo crociato; ma predica anche davanti al Sultano. Lo fa nel modo che fisserà per i suoi frati nel capitolo 14 della regola non bollata: senza armi e senza potere. La leggenda aggiungerà il resto: Francesco che cammina fra le fiamme per provare la sua fede, che converte al-Kamil, che raggiunge Betlemme per Natale e pensa al presepio.
Una fioritura narrativa che continua per secoli davanti a un episodio vago ma dirompente. Paul Sabatier lo ingloberà in una ideologia di superiorità: se nel 1894 l’eroismo violento delle crociate non può essere un vanto, l’eroismo disarmato del Poverello dimostra ancora una volta una superiorità “cristiana”, provata dal fatto che Francesco sfida le fiamme con cui i dotti imam non si misurano (così li ritrae Giotto). Keith Chesterton nel 1924 radicalizza poeticamente l’antagonismo fra la crociata dei cavalieri e quella del missionario, modello di un colonialismo apostolico.
Negli anni Trenta, Louis Massignon, profeta del dialogo mistico islamo-cristiano, si convince che la decisione di Francesco di adottare un rituale arabo come la prova del fuoco sia una indicazione sulla via di comunione possibile fra i figli di Abramo. Gli storici dell’ordine leggono il presunto pellegrinaggio del santo a Betlemme e Gerusalemme come l’atto che giustifica la “custodia” dei luoghi santi e la vocazione al dialogo dei frati. È questo impasto di leggenda che fa sì che Assisi, patria dell’eroe di Damietta, diventi una capitale della pace: da Aldo Capitini che fa approdare lì la sua marcia da Perugia nel 1961 a Giovanni Paolo II che vi raduna le preghiere delle religioni per la pace nel 1986.
Il rigore critico di ieri e la propaganda clericofascista di oggi (quella che tratta Bergoglio da eretico) possono provare a ridimensionare queste riletture. Dietro le quali resta però un fatto: Damietta, come tutta la vita di Francesco, giudica di chi la usa e ne svela le intenzioni, sempre.
L’intenzione di Francescopapa in terra d’Arabia è mostrare una chiesa che abbraccia la povertà perché è la povertà di Cristo. Il Papa negli Emirati ricambia, con una delicatezza non abituale, la presenza dei musulmani a tanti eventi interreligiosi di marca cattolica: ma davanti ai nababbi del petrolio – talmente ricchi da essere tolleranti verso la massa di servitù cattolica, importata dal mondo povero –, Francesco papa si presenta impersonando la questione chiave della vita e del testamento francescano.
L’Assisiate, infatti, è un penitente radicale che grazie alla povertà individua lucidamente due “forme” della vita cristiana che non si possono né staccare né mescolare. La “forma della santa chiesa romana” e la “forma del santo evangelo”, che fa sua. Il nodo storico del pontificato bergogliano è che con il papa latino-americano, al cuore del potere della santa chiesa romana c’è un uomo che vive la forma del santo evangelo. E che dunque, come il suo omonimo a Damietta, va e non fa “niente”. Se non testimoniare la vita secondo il vangelo; passare dal fuoco dei social, che lascia indenni solo le persone credibili e uscirne intatto. Anche a rischio di essere considerato unus novellus pazzus in mundo: sia dagli odierni crociati con le loro belle pantofole identitarie, che invocano l’odio religioso senza sapere quale mostro eccitino, sia dagli al-Malik di oggi che sanno che all’Islam serve quel tipo di credibilità e quel tipo di sapienza che il successore di Onorio III esprime chiedendo pace, libertà e conoscenza dell’altro. (Alberto Mellone – Repubblica)
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