religione

Giotto, Francesco e l'arte sublime secondo Fry

Franco Marcoaldi Andrea Cova
Pubblicato il 14-11-2020

Il 'grande eretico ortodosso' e 'la grande fioritura dell'arte'

È il 1901, e in un suo saggio sulla Monthly Review, il critico Roger Fry enuclea con felicissima sintesi uno dei punti di svolta più significativi dell'arte occidentale. Due i protagonisti: San Francesco e Giotto. Legando indissolubilmente bellezza morale ed estetica, sarà Francesco, «grande eretico ortodosso», a imprimere «la grande fioritura dell'arte italiana». Mentre nella basilica di Assisi eretta in onore di chi aveva fatto della sua esistenza «una perfetta opera d'arte», Giotto compirà il successivo miracolo plastico, accostandosi alla realtà degli eventi quotidiani, ma svelando al contempo il «significato universale ed eterno che distingue un mito da un semplice fatto storico». Proprio nel saper combinare questi due tratti, in apparenza contraddittori, «si manifestò il genio unico di Giotto, che divenne il più grande narratore della linea, il sommo pittore epico. La conciliazione di queste due esigenze, l'attualità e l'universalità, è infatti lo sforzo più arduo della forza espressiva».

Soltanto Dante, in poesia, avrebbe fatto altrettanto. Nel suo Giotto (Abscondita, a cura di Laura Cavazzini), Fry finisce così per offirci un trittico - con il santo, l'artista e il critico, che illumina il ruolo dei primi due. Perché illuminare è il suo compito. Fry lo farà da par suo anche nel 1910, quando organizzando a Londra la prima mostra dei postimpressionisti (con al centro Cézanne) cambierà alla radice la sensibilità moderna, per utilizzare le parole dell'amica Virginia Woolf. Per Virginia sarà una rivoluzione talmente importante, che, pur conoscendo da vicino le personalità più grandi del tempo (da Keynes a Strachey, da Freud a Eliot), finirà per mettere in cima alla lista dei preferiti proprio lui, Roger Fry. 

Come critico, come intellettuale, e come uomo. Di un rigore pari alla sua infinita generosità. «Il segreto del suo ascendente sembrava fondarsi sul disinteresse. Per utilizzare la sua definizione, era tra i preti, non tra i profeti, o i piazzisti. Ignorando i potenti o i politici, il successo e l'insuccesso, sembrava penetrasse nel quadro più a fondo di altri critici». Sì, aggiungeva Woolf - aveva avuto ragione E.M.Forster salutandone la scomparsa con queste amare parole: «La morte di Roger Fry è una perdita irreparabile per la civiltà». Perché solo la critica, la grande critica, sa porgerci l'opera d'arte nella sua giusta luce. Anche se troppo spesso, e tanto più oggi, finiamo per dimenticarcene. 

 

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