Francesco e il Sultano: il messaggio
Uno dei momenti segnanti della storia dell’uomo
Francesco e il Sultano. Francesco a Damietta. Francesco in Egitto. Francesco incontra l’Islam: comunque lo si chiami resta uno dei momenti segnanti della storia dell’uomo, non solo del Santo di Assisi. Era il 24 giugno 1219. Negli anni della quinta crociata, quando il Cristianesimo e l’Islam non avevano punti “d’incontro” ma solo di scontro, Francesco offre al mondo un esempio di come dovrebbero essere mantenute e intrattenute le relazioni umane. Il Poverello si presenta al Sultano Malek al-Kamel senza dogmi, ma con quell’amore che il Vangelo indica insegnato da Cristo e che sa – Francesco – che non può essere imposto, piombare come un assioma sul fratello musulmano. I musulmani, per Francesco, erano una risorsa e non un pericolo per la cattolicità.
Non sappiamo cosa si siano detti, ma possiamo intuirne il tono, il tenore del linguaggio a giudicare da quelli che sono i risultati riportati dall’Egitto. Tornò con una terza via per la missione, dopo la prima rappresentata dalle crociate e la seconda dall’isolamento, che percorreva l’incontro e il dialogo: andare verso l’altro. Ma allora, di che parlarono? Di Dio, appunto. Del Dio onnipotente, ch’è Allah clemente e misericordioso. Del Dio comune di ebrei, di cristiani e di musulmani: La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini (Nostra Aetate, 3).
Giotto illustra magistralmente questo incontro nell’undicesima scena del ciclo pittorico – eseguito intorno al 1296 - che racconta la vita del Santo. Francesco al centro che indica sia il fuoco che se stesso, mentre a sinistra i sacerdoti musulmani si dileguano e, a destra, il Sultano, rifiutando l’offerta di Francesco di entrare nel fuoco solo, a sua volta gli offre “molti doni preziosi…per distribuirli ai cristiani poveri e alle chiese, a salvezza dell’anima sua”. Il Santo però, “poiché voleva restare libero dal peso del denaro”, non accettò.
Francesco sapeva bene come parlare, sapeva che incontrando “l’altro” avrebbe dovuto tenere conto di tutta una serie di conoscenze pregresse, fondamentali per gettare le basi per un futuro di pace. L’Assisiate sa che prima di essere frate è uomo, una consapevolezza che facilita l’intessere di rapporti con altri uomini, perché incontra il Sultano con l’aver nozione di ciò che ha portato ad una tensione tra le due religioni. Una lezione che sembra dimenticata dalla contemporaneità, eccessivamente dedita alla “cultura del presente” che nega il passato, lo dimentica a discapito di un futuro che necessita della storia per essere tale.
Chi dimentica il passato, dimentica anche di essere uomo e, inevitabilmente, diventa cattivo e propenso ad un linguaggio involgarito che genera difficoltà di relazione: ad una parolaccia si risponde con una parolaccia più forte, innescando un circolo di aumento esponenziale della volgarità. L’uomo che sceglie un lessico volgare, sceglie “sapientemente” di rompere la relazione con l’altro, che non riconosce più come interlocutore degno.
Quella di Francesco non è stata diplomazia, è stata misericordia. D’altronde, una diplomazia senza misericordia – che astragga cioè dai bisogni, dai desideri, dalle passioni dell’interlocutore – è solo tattica se non inganno e malafede. Forse, quanto meno in una certa misura, il mondo d’oggi va tanto male proprio perché la diplomazia astrae sempre dalla misericordia. Auguriamoci che il modello e l’esempio di Francesco divengano, in un immediato futuro, concretezza di comportamento.
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