religione

Charles Maung Bo, un arcivescovo messaggero di pace

Annamaria Puri Purini EPA/OSSERVATORE ROMANO
Pubblicato il 08-08-2020

Intervista alla senatrice Albertina Soliani (Associazione per l'Amicizia Italia - Birmania)

Onorevole, una consuetudine di lunga data l’ha messa in condizione di conoscere meglio di molti altri la realtà storico-politica della Birmania. In particolare conosce bene, oltre alla premier Signora Aung San Suu Kyi, anche l’Arcivescovo di Yangon, Card. Charles Maung Bo. Lo sappiamo molto attivo su numerosi fronti tra cui il dialogo con le altre religioni. È così?

I miei rapporti con la Birmania risalgono al 2005.Quando, dopo lo tsunami che ha investito il Sud Est asiatico il 26 dicembre 2004, il mio amico e collaboratore Giuseppe Malpeli, sopravvissuto, si recò in Birmania per portare alla madre le ceneri di un giovane amico, Lucky, deceduto nello tsunami, e considerato disperso dalla famiglia. Il Paese era chiuso al mondo, nel buio della dittatura militare. Dissi a Giuseppe: là c’è una donna agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi, sto leggendo il suo libro “Liberi dalla paura”. Cercala, dille che siamo con lei. Più’ tardi, in modo straordinario, l’incontro avvenne. Dissi ancora a Giuseppe, che tornava in Birmania senza conoscere nessuno: “Ci sarà pure un Vescovo a Yangon, forse in contatto con Roma. Vallo a trovare”. Quel Vescovo era Charles Bo. Giuseppe andò, diventammo amici e da allora ci siamo incontrati sempre. Poi nel 2015 Papa Francesco lo ha fatto Cardinale, prendendolo dalla periferia del mondo e poi lo ha nominato Presidente delle Conferenze Episcopali dell’Asia. Scelto da una piccola realtà, il Myanmar, come una storia biblica. Adesso Charles Bo è la voce di Papa Francesco in quel continente, e non solo. Charles Bo è una personalità autorevole, nonostante la Chiesa Cattolica in Myanmar rappresenti l’1,5% della popolazione.

Ci può raccontare l’attività del Cardinale Bo nell’ambito interreligioso?
E’ in dialogo con esponenti della religione buddista, di quella mussulmana, induista, di diverse confessioni cristiane, baha’i. E’ molto attivo sul piano internazionale con “Religions for Peace”, di cui è stato Presidente. Ha detto: “I nostri incontri in questo ambito, hanno dimostrato che il dialogo in modo coordinato tra tutte le parti è possibile e fruttuoso. Siamo pronti in ogni momento a incoraggiare e mediare un nuovo e tempestivo dialogo tra di noi”. A Naypyitaw sono stati realizzati diversi Forum di “Religions for Peace”, presente Aung San Suu Kyi. Quando Papa Francesco, nel novembre del 2017, è andato in visita in Myanmar, ha incontrato anche i rappresentanti delle diverse religioni. Il 13 luglio, Charles Bo ha sottoscritto con loro un documento dal titolo “Cogliete questa opportunità “ a favore del dialogo tra le etnie, la riconciliazione e la pace, in occasione delle elezioni politiche dell’8 novembre. Charles Bo sa che la democrazia è l’unica luce nel cammino travagliato del Myanmar, ed è molto vicino ad Aung San Suu Kyi.

Qual è l’atteggiamento del Card. Bo in questo contesto di pandemia globale?
Charles Bo legge con passione profetica i segni dei tempi. All’inizio della pandemia ha pubblicato una coraggiosa dichiarazione sulla colpevolezza morale del Partito Comunista Cinese nella gestione dell’informazione sulla pandemia. Il diritto alla vita, alla sicurezza, alla pace per tutti gli esseri umani è la bussola che lo guida di fronte alle sfide globali. Charles Bo non esita a chiamare le cose con il loro nome, ad affrontare i problemi con coraggio, a infondere fiducia. Tempo fa aveva pronunciato un discorso potente contro il progetto di diga di Myitsone, sul fiume Irrawaddy, la Madre Sacra, che attraversa il Paese da Nord a Sud, voluto dalla Cina. Ora il progetto è fermo. Nelle settimane scorse ha risposto alla chiamata di Papa Francesco per un cessate il fuoco globale perché l’umanità possa affrontare meglio e insieme, la pandemia. Ha chiesto un giubileo per il perdono del debito dei Paesi poveri che stanno lottando contro la pandemia, e la protezione degli sfollati. Charles Bo affronta le sfide globali, sulla via aperta da Papa Francesco, per un cambiamento strutturale del mondo: il clima, gli abusi globali delle imprese che calpestano i diritti del lavoro, la libertà di religione senza sottomissione al potere, le comunicazioni nell’era dei social. Nulla gli è estraneo di ciò che riguarda il futuro dell’umanità. ”Un tempo per allungare la nostra immaginazione e la nostra intelligenza, per imparare in modi nuovi, per prepararsi a un mondo cambiato“, così ha detto il 9 maggio scorso parlando del Covid-19 in tutto il mondo, definendolo una “tempesta perfetta”.

Si potrebbe parlare di un cammino asiatico della Fede?
Penso al pensiero teologico innovativo dell’America Latina, negli anni sessanta e settanta, della teologia della liberazione. Oggi in Asia cresce un pensiero nuovo, che si confronta anche con la Cina, a partire dai più poveri della terra. Charles Bo ne è uno dei principali artefici, attraverso una teologia della consapevolezza.

Come riesce a comunicare il messaggio cattolico in un mondo spirituale così diverso come quello orientale?
Con semplicità e forza, con il coraggio della testimonianza. E’ espressione della cultura dell’Asia, della Birmania, fatta di molte etnie, lingue, religioni. Da lui si entra scalzi, lui stesso è scalzo, secondo il costume birmano. Ben consapevole del ruolo di servizio della Chiesa Cattolica, parla la lingua del Vangelo, della Bibbia, assume su di se’ la sofferenza storica del suo popolo. I conflitti etnici per lui sono uno scandalo da far cessare al più presto, ne denuncia gli interessi di denaro, droga, corruzione. Ha denunciato lo sfruttamento dei più deboli cercatori di giada, dopo il recente crollo della miniera. “Per troppi decenni -ha detto-il Myanmar è stato chiuso al mondo. Negli ultimi setti anni alcuni momenti di speranza e segni di luce sono emersi, per poi essere sostituiti da nuove nuvole scure”. Ricordo il suo discorso , in occasione del conferimento della porpora, a Palazzo Giustiniani del Senato della Repubblica. Iniziò’ dicendo: siamo stati tutti crocefissi. La fede e la storia: una scelta esistenziale, una scelta di popolo. E’ questo il messaggio della Chiesa Cattolica in Myanmar, un messaggio di risurrezione nella tragedia della storia di un intero popolo. Un annuncio forte, in un Paese permeato di spiritualità, soprattutto buddista, oggi percorso dalla tecnologia mentre lotta per uscire dalla povertà, con i modelli globali che parlano ai giovani, la metà della popolazione. Il Myanmar è un luogo teologico di dialogo, di ricerca dell’unità, con un grande bisogno di rispetto, di accoglienza, di compassione.

Esiste una comunità cattolica attiva in Birmania?
Sì, molto attiva. Pur rappresentando una comunità piccola, la Chiesa Cattolica è molto viva, e rispettata. Quando vado a Messa, a Yangon, in Cattedrale o in altre Chiese parrocchiali, c’è sempre molta gente, partecipe. I seminari sono pieni, anche se pochi gli studi teologici. Molto presenti le suore, in genere di congregazioni europee, con vocazioni birmane. Ho visto molto attiva la Caritas, Karuna Mission Social Solidarity, presente anche in luoghi di conflitto, come il Rakhine. La visita del Papa ha mobilitato tutti, i giovani lungo le strade per il servizio d’ordine, io ero lì. Gruppi cristiani hanno camminato per giorni, specialmente dal Kachin State, per arrivare a Yangon. Ci sono martiri in Myanmar, come padre Alfredo Cremonesi, ucciso là’ dai militari nel 1953, recentemente proclamato beato. Nel febbraio scorso sono stata in pellegrinaggio sul luogo del martirio con la sua diocesi. È una Chiesa di frontiera, quella del Myanmar, cammina con il suo popolo. In Asia, dove sta nascendo il mondo nuovo. In Myanmar, dove sta nascendo, tra tante difficoltà, una delle poche democrazie di quell’area. Una Chiesa che parla a noi, in Europa, e ci scuote. Ci prende per mano, aiutandoci a scrutare il futuro.

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