A colloquio con Ravasi: "Il testacoda del simbolo dell'ulivo"
“Il coronavirus? Ha rivelato un valore supremo: l’amore”
Intervista al cardinal Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
Eminenza, anzitutto come sta?
Io bene, anche se leggo in me - come penso anche in voi e in tutti in queste giornate – una eco interiore, soprattutto quando ricevo continuamente lettere e email di persone che conosco e che vogliono esprimere una loro interpretazione di questo momento.
Sento continuamente la voce di Giobbe che rigettava le parole degli amici teologi venuti a confortarlo definendoli “decotti di malva”, persone cioè che sono incapaci di spegnere il dolore delle persone.
Io vivo anche un po' in ufficio, i dicasteri vaticani sono aperti su tutto il mondo. Cerchiamo di continuare a tenere questo contatto col mondo, soprattutto perché sono tante le persone che ci interpellano.
Vorrei aprire una finestra su un parallelo: da una parte, c’è la nostra sofferenza e la sofferenza di tante persone. Io provengo dalla Lombardia, il mio paese di nascita è a 20 km da Bergamo: attorno a noi c’è quasi un cimitero, persone che io ho conosciuto. Ecco, a questo quadro, io vorrei sovrapporre le ore che cominciamo oggi e che continueranno per tutta la settimana: le ore ultime di Cristo. Anche lui ha paura. Ha paura e persino orrore della morte, il cui volto si presenta davanti a lui. Anche lui sperimenta l'isolamento dagli amici, i discepoli che rimangono lontani, come nel caso di tante persone malate sole.
Abbandonano anche lui, la sua carne ferita per le torture. Pensate come anche l’intubazione possa essere una tortura. Una tortura che prova, soprattutto, la peggiore delle solitudini per lui, ma anche un po' per coloro che ci ascoltano adesso e che sono credenti, cioè il silenzio del padre Dio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
Chiediamoci cosa vuol dire la crocifissione, anche dal punto di vista fisico. Alla fine, anche Gesù, a causa della crocifissione, un fenomeno fisico, muore come molti malati di coronavirus, perché muore per asfissia. Vorrei tracciare questo parallelo: entrare in questa settimana è paragonare le sofferenze dei malati di coronavirus alla passione di Cristo.
Il Dio Cristiano non è come Giove, come Zeus, relegato nel suo mondo olimpico dorato, apatico nei confronti delle sofferenze umane. È invece un Dio patetico, che ha scelto di assumere la stessa nostra carta d'identità, fatta anche di gioia, sì, ma, soprattutto in questa settimana, di limiti, di dolore, di morte.
Eminenza, dov’è Dio in questi momenti?
Vorrei ricordare quello che scriveva nei campi di concentramento nazisti un teologo martire tedesco, Dietrich Bonhoeffer, quando nel suo diario in carcere appuntava una frase che può sembrare provocatoria: Dio in Cristo non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in forza della sua impotenza. Perché in quei momenti diventa lui stesso sofferente e mortale. Allora, io direi, sono importanti le preposizioni: Dio non ci libera dal male, ma è con noi nel male fisico e interiore.
Io vorrei proporre in questo momento l'immagine del ramoscello d'ulivo, che è l'immagine della pace e noi sappiamo che a Pasqua il primo saluto di Gesù risorto ai discepoli è: Pace a voi. Noi con questo ramoscello introduciamo la grande Settimana Santa. Sia l'ulivo sia la palma sono simboli di grande rilievo.
Io evoco due tra i tanti passi della Bibbia possibili, a partire naturalmente dall'ingresso di Gesù nella Città Santa, l'inizio dell’ultima settimana della sua vita terrena. Ecco, io prenderei il capo e la coda della Bibbia: prendiamo la Genesi, la colomba che si presenta con il ramoscello d'ulivo e Noè comprende che è finito il giudizio di Dio, è finito il male del mondo, comincia una nuova era in cui si morirà ancora ma non in maniera disperata.
Ecco, allora, il simbolo che è un simbolo di pace, ma non solo della pace nel mondo, purtroppo sempre ferita, ma anche della pace interiore e rappresenta la nuova alleanza tra Dio e l'umanità intera.
E l'ultimo è invece la coda, l'Apocalisse, quando noi vediamo avanzare gli eletti, coloro che sono per eccellenza i giusti, i redenti che hanno in mano le palme che sono il segno della vittoria sul male, della cancellazione della sofferenza
E si dice che Dio passerà e cancellerà dagli occhi e dalle guance degli uomini e delle donne le lacrime. Ebbene, in quel momento i giusti avanzano con le palme in mano, segno anche nella cultura greco-romana, della vittoria; questa vittoria, appunto, sul limite e sulla morte. E’ significativo che portino le vesti bianche, vesti bianche - si dice - lavate nel sangue dell'agnello. È paradossale perché non potrebbero essere bianche e invece il bianco nell'apocalisse è il simbolo dell'eternità e della Pasqua.
Eminenza, cosa si può imparare da questo momento e da questa situazione assurda, paradossale, strana?
Questo male che stiamo vivendo ha insegnato sia a chi crede, sia a chi non crede. Prima di tutto, ha svelato la grandezza della scienza, ma anche i suoi limiti. Noi eravamo convinti che con la tecnologia, per esempio, si poteva risolvere quasi tutto. Questa era la nostra grande fiducia. Secondo, il coronavirus ha riscritto la scala dei valori, che non ha più al suo vertice il denaro, il successo il potere. Terzo, ha insegnato lo stare in casa insieme a padre e figlio, a giovani e anziani, e ha quindi fatto capire e riproposto le fatiche delle relazioni, non solo virtuali, ma delle relazioni carne. Cioè il contatto pelle con pelle. Quarto, ha semplificato il superfluo e ci ha insegnato l'essenzialità. Quinto, direi, ci ha costretti a fissare negli occhi dei nostri cari la stessa nostra morte. Ma soprattutto, e questo vorrei mettere a suggello, ha rivelato un valore supremo: l'amore. L'amore al tempo del coronavirus: questo potrebbe essere un titolo finale.
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