“Le Beatitudini” e il loro messaggio rivoluzionario
“Le Beatitudini” contengono un messaggio rivoluzionario: le persone sconfitte secondo il mondo vengono considerate da Gesù come i veri vincitori, chiamati ad edificare il Regno di Dio. Proprio alle Beatitudini è dedicato l’ultimo libro del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, edito recentemente da Mondadori. Il porporato, esperto biblista, confronta i due testi delle Beatitudini, in Matteo e in Luca, e rintraccia la presenza di queste parole nell’Antico Testamento, specialmente nei Salmi, ma anche richiamando Mosè e il Sinai. Offre anche “un viaggio” nei riflessi di questo testo nell’arte, nella musica e nella letteratura. Un libro che propone l’attualità del Discorso della Montagna nel suo richiamo non solo ad un futuro escatologico ma anche all’oggi, come sentiamo dallo stesso cardinale Gianfranco Ravasi al microfono di Debora Donnini:
R. – Le Beatitudini rappresentano il desiderio di guardare ad un mondo che sia diverso. Ed è per questo motivo che alcuni le hanno interpretate quasi esclusivamente come destinate all’ingresso nel Regno di Dio perfetto. In realtà, Cristo vuole, da un lato, guardare certamente al di sopra della piccola navigazione di tutti i giorni, ma al tempo stesso vuole che questo orizzonte lontano inizi già ora. E’ quello che lui chiama il Regno di Dio, un progetto che deve iniziare a costruirsi già all’interno dello spazio della storia presente ed ogni uomo deve dare il suo contributo.
D. – Quella di Gesù non è "una morale da schiavi", come accusava Nietzsche, ma sembra avvicinarsi di più al discorso sulla vittima dello studioso René Girard. Gli ultimi - dei quali Gesù con la morte in Croce è il primo - sono in realtà vittime senza colpa. Per questo saranno beate, in una prospettiva escatologica, e per questo già oggi devono essere aiutate…
R. – Certamente non è la concezione di Cristo, che non è neppure una concezione strettamente pauperista. Noi dobbiamo concepire coloro che sono vittime all’interno della storia, non semplicemente come se fossero degli sconfitti, ma neppure come fossero in uno stato assolutamente permanente e definitivo, tanto è vero che viene detto: “Beati quelli che piangono, perché saranno consolati”. E’ sempre - se vogliamo completare Girard - il desiderio di far sì che le vittime riconoscano che a loro è destinata una risurrezione, che è poi il principio della vita stessa di Cristo.
D. – Anche perché, parzialmente, umiliazioni e momenti di pianto, di difficoltà possono accadere a tutti gli uomini…
R. – Lo stato dei personaggi delle Beatitudini non è uno stato, strettamente parlando, solo degli ultimi della Terra: il discorso delle Beatitudini riguarda tutti gli uomini e le donne che devono vivere queste realtà, che sono considerate dal mondo come realtà di sconfitta, e che Cristo, invece, vuole presentare come un principio di trasformazione nel Regno di Dio.
D. – Il Beato Angelico a Firenze ha proposto l’immagine del Discorso della Montagna: Gesù indica con l’indice della mano destra il cielo, mentre la sinistra stringe il rotolo delle Sacre Scritture. Una sintesi perfetta del messaggio delle Beatitudini?
R. – Certamente questa è una delle rappresentazioni più celebri e credo che abbia poi anche un altro aspetto. Naturalmente, l’indicazione del trascendente, illuminato dalla Parola di Dio, ma anche che si trova sul monte, circondato dai discepoli, i quali rappresentano l’umanità.
D. – Per Papa Francesco le Beatitudini sono un programma di santità tanto che le ha definite anche come “i navigatori della vita cristiana”…
R. – L’intenzione di Gesù è di rappresentare il volto del discepolo e non soltanto del discepolo privilegiato – vedi appunto la persona consacrata o altro – ma del discepolo tout court.
D. – Lei fa un confronto a tutto campo sulle Beatitudini, cercandone tracce nell’Antico Testamento e riflessi nell’immaginario collettivo: nella letteratura, nella musica, nella pittura. Quale immagine o espressione l’ha colpita di più?
R. – Nelle Beatitudini del Beato Angelico si trova proprio la presenza di Gesù come Maestro e come Signore della storia. Ci sono, però, anche altre opere meno note, magari lontane… E anche se la Beatitudine non viene citata esplicitamente, una buona parte dei romanzi di Dostoevskij sono una meditazione sulle vittime della storia.
D. – Proprio pochi giorni fa, lei ha festeggiato il suo 50.mo di sacerdozio. La sua è stata una vita sicuramente ricca di esperienze di fede, ma anche di cultura. Questo libro, in qualche modo, riassume il tesoro, sia di fede sia di cultura, che lei ha coltivato in questi anni?
R. – Tutti, almeno i sacerdoti, hanno un momento a cui possono far riferimento come ad una sorgente. Per me è stata un’esperienza che ho fatto da bambino. Credo avessi circa quattro anni. Mi trovavo su un colle con mio nonno, quando ho visto che nella valle passava un treno e ho sentito il fischio di questo treno, un suono che creava malinconia. Ecco, in quel momento ho avuto la prima percezione in assoluto del dolore, della vita che finisce, e da quel momento in avanti è iniziata la ricerca di qualcosa che permanesse, di qualcosa che appartenesse all’orizzonte del divino. Nelle Beatitudini, questi due aspetti si intrecciano: da una parte c’è l’esperienza di base, quella del negativo, e dall’altra c’è questa parola – Beati – che è la tensione verso l’Eterno, che poi io ho potuto elaborare naturalmente, avendo la fortuna di vivere lungamente nello studio, nell’approfondimento, soprattutto nel dialogo col mondo contemporaneo. (Radio Vaticana)
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