Speciale Papa Francesco

Fratelli Tutti, Impagliazzo: 'Rinsaldare la fraternità nella prova'

Marco Impagliazzo
Pubblicato il 03-10-2020

"La proposta rivolta a singoli e popoli risvegliatisi 'sulla stessa barca' nella tempesta scatenata dal virus"

di Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant'Egidio

 

Il nostro tempo, liquido e triste, attraversato da conflitti a bassa intensità, scosso da contrapposizioni identitarie, colpito dalla pandemia e dalla crisi economica connessa, può sembrare un tempo per realisti e non per sognatori, per edificatori di muri e non per costruttori di ponti, un tempo di distanziamento diffidente e non di fraternità solidale.

Eppure, è proprio in questo nostro tempo che papa Francesco ha scelto di utilizzare un vocativo delle Admonitiones del santo di cui porta il nome - “Fratelli tutti” - per farne la proposta rivolta a singoli e popoli risvegliatisi “sulla stessa barca” nella tempesta scatenata da un virus tanto microscopico quanto letale, il “manifesto” della nuova anima da dare alla globalizzazione.

Del resto, non era anche il mondo di Francesco d’Assisi un groviglio di divisioni e d’insicurezza? Lo ricorda lo stesso Bergoglio tratteggiando il Mediterraneo d’inizio Duecento, “pieno di torri di guardia e di mura difensive” (FT 4), nel quale uno sparuto gruppo di Minores aveva avuto l’audacia e l’ingenuità di predicare la pace tra le mura dei rissosi Comuni italiani e lungo le tende di eserciti intenti a combattere una guerra “santa”.

E, del resto, quale momento migliore in cui scoprire e rinsaldare la fraternità se non quello della prova? Quando ci si accorge che è amaro e perdente essere soli di fronte al male, che – come dice la Scrittura - è “meglio essere in due che uno solo, […]. Infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi?”, e che “una corda a tre capi non si rompe tanto presto” (Qo 4, 9-12).

In un tempo in cui l’uomo riscopre la propria fragilità, l’intrinseca debolezza di tutto l’edificio sociale, mentre le sirene dell’autoreferenzialità intonano per l’ennesima volta il vangelo dell’indifferenza, “Salva te stesso!” (Lc 23, 37), il successore di Pietro lancia un appello alla “rivolta dell’uomo” e dell’umanità. Rivolta contro ogni divisione, contro ogni esclusione, impegno a riconoscere l’altro, l’apparentemente diverso da sé, come fratello.

Un appello, dunque. Un invito. L’invito “a un amore che vada al di là delle barriere della geografia e dello spazio”. Ad “una fraternità aperta, che permetta di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata e dove abita” (FT 1).

Si sono infatti consolidate nel tempo una cultura individualista, una “globalizzazione dell’indifferenza”, che hanno sminuito il valore della solidarietà. Se ne vedono le ricadute nella durezza con cui ci si permette ormai di riferirsi agli stranieri, ai migranti economici o ai richiedenti asilo: “Lo scarto […] assume forme spregevoli che credevamo superate, come il razzismo, che si nasconde e riappare sempre di nuovo. Le espressioni di razzismo rinnovano in noi la vergogna dimostrando che i presunti progressi della società non sono così reali e non sono assicurati una volta per sempre” (FT 20). Ma la famiglia che aveva dovuto lasciare l’Afghanistan e ha di nuovo perso tutto nell’incendio del campo di Moria, a Lesbo, quella famiglia, loro, non sono nostri fratelli? 

Ovvero nella marginalità in cui sono relegate le residenze per anziani, peraltro così duramente colpite negli ultimi mesi: “Abbiamo visto quello che è successo agli anziani in alcuni luoghi del mondo a causa del coronavirus. Non dovevano morire così. Ma in realtà qualcosa di simile era già accaduto a motivo delle ondate di calore in altre circostanze, crudelmente scartati” (FT 19). Quei vecchi non sono nostri fratelli?

Nonché, allargando lo sguardo, nel modo in cui, nel mondo, ci si rapporta a livello di stati e di culture. Scrive infatti Francesco: “Per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione. Ma la storia sta dando segni di un ritorno all'indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari paesi un'idea dell'unità del popolo e della nazione […] crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali” (FT 10-11). In tanti contesti è più facile dire che l’Altro è un nemico. E non un fratello. 

Il mondo si rivela davvero “malato”, come, con felice intuizione, aveva detto il vescovo di Roma il 27 marzo scorso in una piazza San Pietro livida per la pioggia e vicina ai tanti colpiti dal Covid-19 che, in Italia, toccavano in quelle ore la punta massima giornaliera: “Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato” diceva il papa. Sarà ancora così? E’ questa la domanda che percorre tutta la nuova enciclica. Non è possibile cambiare strada?

Al centro della “Fratelli tutti” campeggia la parabola del buon Samaritano. Bergoglio commenta: “Con chi ti identifichi? [...] Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società […]. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni” (FT 64). E prosegue: “Guardiamo il modello del buon Samaritano. E’ un testo che ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale” (FT 66). “Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via d'uscita è essere come il buon Samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione” (FT 67).

Non è possibile – ci dice il Papa - continuare imperterriti sui passi che ci hanno fatto ammalare, che hanno reso il mondo malato.  E’ tempo di strade differenti. E’ tempo di assumere la medesima logica che il testo evangelico sottolinea, quella per cui non importa di che nazione o tradizione sono io e sei tu. Siamo invitati a mettere “da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, [a farci] vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei ‘prossimi’ da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri” (FT 81).

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