Zaki è uno di noi, l'Italia trovi il coraggio di porre fine alla sua tortura
Dovrebbe essere la priorità del nuovo governo
Nessuno si preoccupa di un ragazzo egiziano da un anno rinchiuso in un carcere del Cairo senza colpe. Eppure, la sorte di Patrick Zaki riguarda tutti noi. Servirebbe un atto di coraggio. Ma in fondo chi se ne frega di un ragazzo egiziano che da un anno se ne sta in un carcere del Cairo senza processo e senza colpe, che si è appena preso altri 45 giorni di tortura, soffre d' asma ed è più che indifeso dal rischio Covid. Dispiace, certo, ma abbiamo altre cose molto più importanti di cui occuparci e preoccuparci. La prima: se Mario Draghi riuscirà a farci uscire dalla più stralunata crisi di governo, e della politica, nella storia repubblicana. La seconda: che futuro si prospetta per il mezzo milione di persone che hanno perso il lavoro nel 2020, e più di due terzi sono donne, e per l' altro mezzo milione che lo perderà quando finirà il blocco ufficiale dei licenziamenti (ufficiosamente è già finito da un pezzo). La terza: se la coda lunga del Coronavirus si arrotolerà buona buona, stordita dal mare di giallo che ha rivestito l' Italia liberata dalle precauzioni, o tornerà a imbizzarrirsi travolgendo le fragili speranze del vaccino libera tutti.
La sorte infame di Patrick Zaki è l' ultimo dei problemi: non è bello dirlo ma è ipocrita fingere di negarlo. In realtà, la violenza reiterata su quello straniero un po' ci riguarderebbe, visto che proprio straniero, il ventottenne Zaki, non è. Per sette mesi è stato nostro ospite all' Università di Bologna, dove frequentava con eccellente profitto un master post laurea. Tornato a casa per un saluto alla sua famiglia a Mansoura, non ha potuto darlo perché il 7 febbraio 2020 l' hanno fermato al Cairo e da allora non l' hanno più rilasciato, accusandolo di essere un pericoloso oppositore del governo ed esibendo come prova dei commenti a favore dei diritti umani postati su Facebook. Per quel che conta, una prova risibile e nemmeno dimostrata. Ma l' Egitto di Al Sisi ci ha abituato a qualsiasi peggio, e la lacerante vicenda di Giulio Regeni, rapito e annientato dopo nove interminabili giorni, dovrebbe aver insegnato all' Italia che tipo di riguardo si riserva a un partner sì strategico ma per altri scopi (militari, commerciali, politici). Protestate quanto volete, processate a casa vostra i carnefici di Giulio che tanto mai vi consegneremo, vendeteci a buon prezzo le vostre fregate e i vostri elicotteri da combattimento, e fatevi gli affari vostri, che qui la legge è a misura di chi comanda e la primavera araba di piazza Tahrir, sbocciata nel lontanissimo 2011, è appassita per sempre, polverizzata in carceri inumane come quella di Tora, dove in una cella senza letto e senza luce, trasfigurato rispetto alle fotografie di quando frequentava felice i suoi compagni di corso in Italia, si va spegnendo la speranza di un ragazzo egiziano che sognava soltanto di tornare a scuola da noi.
La meritoria mobilitazione a favore della sua scarcerazione, partita dall' università bolognese, l' Alma Mater, che l' aveva in carico e ne pretende il reintegro, ha coinvolto anche esponenti di rilievo delle nostre istituzioni e dell' Unione europea. David Sassoli, presidente del Parlamento di Strasburgo: «Voglio ricordare alle autorità egiziane che l' Ue condiziona i suoi rapporti con i Paesi terzi al rispetto dei diritti umani e civili. Chiedo che Zaki venga immediatamente rilasciato». Da ministro degli Esteri, Luigi Di Maio aveva detto parole altrettanto definitive: «Stiamo seguendo la vicenda con la massima attenzione per riportare Patrick dalla sua famiglia il prima possibile». Per poi aggiungere, con un' enfasi a cui non sempre hanno corrisposto i fatti: «Sui diritti umani non si arretra. Questo vale per la verità su Giulio Regeni e vale per Zaki. Patrick è cittadino egiziano ma lo sentiamo e lo abbiamo a cuore come se fosse italiano».
Ecco, come se fosse italiano. La città di Bologna ha conferito a Zaki la cittadinanza onoraria, che è un bel gesto ma senza possibili conseguenze concrete, proprio nei giorni in cui i carcerieri decidevano di prolungargli la tortura per altri 45 giorni, quasi in coincidenza con il quinto anniversario, 3 febbraio, del ritrovamento del corpo sfranto di Giulio Regeni. Con tutti i problemi che abbiamo, da ultimo, proprio in coda, volendo, ci sarebbe un pezzettino della nostra reputazione sulla scena internazionale che si gioca anche sulla pelle di uno studente egiziano «come fosse italiano», spinto con brutalità in un pozzo senza fondo, forse per rappresaglia verso un Paese, il nostro, che si permetteva di esigere giustizia per un proprio figlio misteriosamente giustiziato al Cairo, Regeni Giulio da Fiumicello, provincia di Udine.
Chi salva una vita, salva il mondo. L' ha ripetuto tante volte, inascoltata, la senatrice Liliana Segre, prendendo a prestito un passo del Talmud. E oggi vengono agli occhi gli ultimi degli ultimi, i profughi di Lipa, congelati al confine tra Bosnia e Croazia, la vergogna più recente sopportata senza pudore dal consesso dell' Europa per bene. Anche una nazione che salva una vita salva qualcosa di più: la propria coscienza e la propria immagine nel mondo.
Nel ritratto molto accurato che Daniele Manca ha dedicato su questo giornale a Mario Draghi, incaricato di provare a salvare l' Italia da se stessa, la parola chiave è coraggio. È lo stesso Draghi a spiegarne il perché: «A cavallo tra le due guerre, mio padre vide un' iscrizione su un monumento. Diceva: se perdi denaro, non hai perso niente perché con un buon affare lo puoi recuperare; se perdi l' onore, hai perso molto ma con un atto eroico lo potrai riavere. Ma se perdi il coraggio, hai perso tutto».
Ci vorrà molto coraggio per ridare speranza a un' Italia interrotta da una crisi disperante. La lista delle priorità è lunga, il contesto pericolosamente litigioso, il clima dentro e fuori il Paese non butta al bello, il tutto al netto del virus. Ma le grandi imprese cominciano anche da piccoli segni. Per esempio, dall' emergenza depennata, nell' infuriare della bufera, di uno studente «egiziano ma come se fosse italiano» abbandonato nelle spire di una bestia congegnata per soffocarlo. Sta esaurendo le forze, il «nostro» Zaki, si sta perdendo dentro l' incubo in cui l' hanno precipitato. Non rimane tanto tempo e non bastano più gli attestati di solidarietà a ciglio umido. Ci vorrebbe un moto di coraggio.
Dargli la cittadinanza italiana, per esempio, che è cosa ben diversa dalla benemerenza civica regalatagli dalla sua Bologna. Vero che questa concessione richiede passaggi complessi, compreso un decreto del presidente della Repubblica, ma non ci sono ostacoli di forma: Patrick Zaki potrebbe diventare, giuridicamente, sia egiziano sia italiano. E in questo caso la pressione sul Cairo aumenterebbe di potenza, anche agli occhi degli alleati europei in questa battaglia di umanità. La nostra legge prevede che il riconoscimento della cittadinanza a uno straniero sia possibile «quando questi abbia reso eminenti servizi al Paese, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato». Siamo nel secondo caso. Il nostro Stato, oggi più che mai, ha bisogno di dare segnali forti di coraggio. Nel suo proprio interesse, e in quello degli ultimi della fila. (Corriere della Sera)
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