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Solo il confronto ci salverà

Timothy Garton Ash pixabay
Pubblicato il 16-07-2020

La lettera degli intellettuali Usa contro la censura nel dibattito pubblico nasconde uno scontro generazionale. Ricominciamo ad ascoltare i ragazzi

Una lettera aperta in difesa del sano dibattito ha suscitato a sua volta un sano dibattito, compresa una lunga controlettera. Bene. Bisogna tutelare la libertà di espressione ma anche promuoverla, a favore di chi ha spesso minor ascolto.

La lettera originale, pubblicata sulla rivista Harper' s e firmata da 150 scrittori, accademici e giornalisti, in massima parte nordamericani, appoggia «la protesta contro il razzismo e per la giustizia sociale» ma mette in guardia contro gli effetti spaventosi della nuova cultura censoria, «l'intolleranza verso le altre opinioni, la tendenza a infamare e a ostracizzare». Il punto focale riguarda la debolezza dei «vertici delle istituzioni» che «preoccupati di contenere i danni, si affrettano a imporre sanzioni sproporzionate, invece di procedere a riforme ponderate».

È vero. Basta un tweet offensivo, un commento molto volgare, una citazione letteraria che contenga il profondo razzismo o sessismo della sua epoca e sei sbattuto fuori - licenziato o, come minimo, sospeso, e le istituzioni si affrettano a prendere le distanze dall'appestato intellettuale. Qualcuno dirà che si tratta di eccezioni. Bisogna certo valutare caso per caso. Ma i casi sono parecchi e ne bastano pochi per produrre un effetto spaventoso. Quindi queste sono cose da dire e sono state ben dette.

Però, e sono certo che molti firmatari concorderanno, la lettera rappresenta solo una parte della necessaria risposta progressista. La libertà di espressione coinvolge sia la bocca che l'orecchio. Riguarda i diritti e i bisogni di chi parla, ma anche di chi ascolta. Il Mahatma Gandhi in un memorabile discorso disse che bisogna aprire le orecchie degli altri e uno dei modi migliori per farlo è aprire le proprie.

Queste ultime sfide alla libertà di espressione riflettono il punto di vista dei rappresentanti di alcune minoranze, ma anche un cambio generazionale di mentalità. Come nel Sessantotto, la protesta è spesso guidata dai giovani sotto i trent' anni (Sarebbe interessante confrontare l'età media dei firmatari della lettera e della controlettera). Dopo i sessantottini ecco i ragazzi post 89, come li chiamo io. Le loro istanze, come quelle degli studenti radicali nel Sessantotto, sono espresse talvolta in termini estremi. Ma bisogna ascoltare oltre l'iperbole per capire il concetto che sta alla base.

Discuto di queste tematiche da parecchi anni con i miei studenti a Oxford, molti dei quali reputano, ad esempio, che la decisione di un'associazione studentesca di cancellare il previsto intervento dell'ex ministra del lavoro Amber Rudd fosse giustificata (soprattutto in conseguenza dello scandalo sull'immigrazione che ha coinvolto la cosiddetta generazione Windrush). Riassunti, i capi di accusa presentati dai miei studenti sarebbero più o meno questi: «Il mondo che voi vecchi progressisti ci avete lasciato ha il ventre marcio. Come potete tollerare ancora che la polizia americana uccida regolarmente afro americani innocenti? Come potete tollerare la visione edulcorata che la Gran Bretagna ha del suo passato coloniale? Come potete ignorare Harvey Weinstein e tutti gli altri colpevoli di abusi sessuali?

Voi vecchi progressisti predicate "pari considerazione e rispetto" (per usare l'eloquente espressione del filosofo Ronald Dworkin) ma i social media - che per la nostra generazione sono una componente della sfera p ubblica più importante del New York Times o della BBC - amplificano in maniera esponenziale l'intolleranza nei confronti dei gruppi come LGBT+ ed altri, facendoli sentire realmente minacciati. Ogni singolo episodio - il tweet di un giornalista, il commento di un professore, il giudizio di un editorialista - possono sembrare un'inezia, ma per noi sono la punta di giganteschi iceberg».

Non hanno forse in gran parte ragione? Ma hanno torto, decisamente, nel momento in cui appoggiano l'utilizzo di mezzi illiberali a nobili fini. L'altra parte del nostro compito è quindi offrire alternative, strumenti più progressisti, per affrontare queste problematiche. Penso ad esempio che la mia università dovrebbe già essere all'opera per organizzare una mostra in cui la statua Cecil Rhodes, prossima ad essere abbattuta, sia punto nevralgico per indagare le ragioni dell'inadeguatezza mostrata dalla Gran Bretagna nell'affrontare il proprio passato coloniale. Dovremmo dire un no deciso al cosiddetto no-platforming , l'atto di togliere il microfono a determinate voci, ma anche creare nuove piattaforme in cui i gruppi negletti ed emarginati abbiano più voce.

La controlettera è apparsa su The Objective , un sito che pubblica contributi sulle «comunità normalmente ignorate dal giornalismo statunitense » e una delle principali accuse mosse è proprio la disparità di attenzione. Quindi più che licenziare i redattori per un articolo offensivo e poco curato, le riviste dovrebbero stampare un maggior numero di articoli da parte delle vittime di oppressioni e abusi. Gli editori non dovrebbero abbandonare gli autori al primo accenno di polemica, bensì cercare senza posa di dar voce a chi non ne ha. Con queste iniziative positive non tapperemo la bocca a nessuno, ma faremo in modo che molte più voci siano ascoltate chiare e forti quanto quelle dei professori progressisti affermati e dei giornalisti che scrivono per Harper' s o per il Financial Times .

Sono necessari sia una sana libertà di espressione che un ascolto attento e equanime.

Traduzione di Emilia Benghi

La Repubblica

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