opinioni

Parole: strumenti di comprensione e dominio

Andrea Cova
Pubblicato il 18-09-2024

Una riflessione con Vera Gheno dal linguaggio al silenzio

La lingua e il linguaggio non sono qualcosa di fermo, statico. Cambiano e vanno di pari passo con le epoche che descrivono. Le parole possono avere funzioni differenti, dipende sempre dal loro utilizzo. Ultimamente tendono ad essere, sempre più spesso, violente, strumenti anche per opprimere, mistificare e reinventare la realtà. Negare la lingua a qualcuno significa soggiogare. Vera Gheno, sociolinguista, ci accompagna all’interno del parossismo di parole che ci circonda; riscoprendo l’importanza del silenzio.

Vera, nei titoli di alcuni tuoi libri compare il termine “parola”, accostato a “futuro”, “utilizzo” e “potere”. Qual è l'arte di usare le parole e quale la loro forza?

Una notazione buffa: per ragioni editoriali, i miei editori, chiedono con forza che nel titolo o nel sottotitolo compaia “parola” o “parole”. Mi dà un po' fastidio e cerco costantemente di emanciparmi da questo senza riuscirci molto, perché è percepito come il mio core business. Detto questo, l'arte di usare le parole è arte nel senso latino, quindi nel significato di artigianato, di competenza tecnica. Ho sempre pensato e cerco di portare avanti questo principio: abbiamo a che fare con una competenza esplicitamente umana, a disposizione di tutti. L'arte di usare le parole nasce dallo sforzo e dall'impegno di farlo al meglio. Essendo una competenza universale si può migliorare, un po’ come la corsa. Sono una schiappa a correre, ma almeno intorno all'isolato ci riesco; poi ci sono quelli che si specializzano e fanno la maratona. Così funziona anche con le parole: arte non nel senso artistico, ma tecnico. E il potere qual è? Secondo me, i tre poteri principali delle parole sono: comprendere meglio se stessi, quindi verbalizzare ciò che si prova, si pensa e si conosce, che regala tanta serenità e felicità. Poi, lavorare sulle relazioni fra esseri umani, riportandoci ad Aristotele che diceva che l’essere umano è un animale sociale, quindi senza relazione con gli altri siamo meno umani. Infine, la gioia di avere i nomi per chiamare le cose del mondo, che è fonte di benessere. Avere una cassetta degli attrezzi più ampia per spiegare e spiegarsi il mondo in cui si vive.

Con quali dinamiche, secondo te, la parola diventa uno strumento del potere, che non sempre viene usato in maniera positiva?

Credo che sia una cosa universale: dalla forchetta alla bomba atomica, come tutti gli strumenti, anche la parola può essere usata in maniera generativa o per perpetrare delle iniquità e infliggere dolore, schernire le persone. Nella sua natura di strumento, di utensile, è contenuta anche la possibilità che venga usata male. Quando parlo di dinamiche di forza, lo faccio perché usare la parola come atto identitario individuale e collettivo, e per nominare il mondo, dovrebbe essere distribuito equamente. Invece non è così, perché entra in gioco la dimensione del potere, che dà o toglie la possibilità di agire tramite le parole. Certe dinamiche sono strutturali nella nostra società, ma anche in questo caso dipende da come si amministra quel potere. Per esempio, un modo facile per perpetuare condizioni di subalternità è togliere alle persone la parola o lo spazio per esprimersi. Quando si dice “dare voce a chi non ha voce”, non significa che non hanno voce, è che non hanno spazio per parlare. Un altro modo è togliere letteralmente la parola, non insegnarla, creando iniquità tramite un sistema scolastico non equo. Analfabetizzare le persone è un modo utile per tenerle sottomesse.

Abbiamo parlato del potere “più alto”. Ti sei occupata, e ti occupi tuttora, di dinamiche linguistiche nei social media, dove la parola come strumento viene usata anche dalle persone comuni, con casi di cyberbullismo fino a situazioni più estreme.

Più che dinamiche esclusivamente linguistiche, stiamo parlando di dinamiche umane e relazionali, di cui quelle linguistiche sono un riflesso. Le dinamiche umane, per me, sono le seguenti: come si usa dire il “pesce puzza dalla testa”, quindi se i settori più potenti della società danno un esempio negativo, le persone penseranno di poter fare lo stesso. Penso a personaggi pubblici, che usano le parole come uno scudiscio. Quando si sdogana l’uso di “capra” per insultare, è normale che anche la persona sui social si senta autorizzata a farlo. L’esempio dato da chi influenza la società è fondamentale. Penso a Gesù, pur da non credente: lui predicava dando l'esempio, parlando con gli ultimi. Questo atteggiamento dovrebbe essere importante a tutti i livelli della società, non solo ascoltare ma mettere in pratica.
La seconda questione è legata al fatto che viviamo in una società atomizzata, che pone molta enfasi sull’individuo, sia nel bene che nel male. Facciamo fatica a ragionare in maniera collettiva. Molti fenomeni strutturali vengono fatti pesare sull’individuo stesso, quindi se fallisce, la colpa è solo sua, senza considerare le marginalizzazioni che possono limitare la probabilità di successo. Se sei una persona con disabilità, devi affrontare ostacoli “imposti” dalla società che non possiamo ignorare.
Questa estrema individualizzazione ha una risultante sui comportamenti linguistici: la maggior parte delle persone è convinta che i propri comportamenti individuali non abbiano conseguenze sulla comunità. Invece ogni piccolo atto comunicativo ha delle conseguenze. Un esempio pratico: quando incontro donne che insistono a usare i maschili professionali, dicendo “preferisco chiamarmi avvocato”, raramente riflettono sull’effetto sociale di questa scelta. In questo modo si perpetua un'idea di superiorità del titolo maschile, influenzando le persone attorno. Anche sui social questa dinamica è evidente, dove però le dinamiche linguistiche si amplificano a causa della rapidità e della vastità della comunicazione. Il cyberbullismo è un esempio eclatante di come le parole possano essere usate per infliggere dolore e perpetrare ingiustizie. È un fenomeno che riflette la mancanza di responsabilità e di consapevolezza degli effetti di ciò che scriviamo sugli altri. Quello che vorrei tanto recuperare è un po’ di amore per la dimensione collettiva, che gioverebbe alla società e alla lingua. Anche se non sei Chiara Ferragni, le tue parole contano. Ogni piccolo atto comunicativo ha delle conseguenze sulla società.

A proposito di maschile e femminile: tendiamo spesso a mettere l’articolo davanti al cognome di una donna e non di un uomo.

È una questione interessante. L'uso dell’articolo davanti ai cognomi femminili è stato già discusso da Alma Sabatini (linguista e attivista, N.d.R.) nelle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana del 1987. È un tema che ha una lunga storia. Se osserviamo questo comportamento linguistico in modo isolato, sembra una piccola incongruenza: qual è il problema di usare l’articolo davanti al cognome di una donna? Tuttavia, se allarghiamo lo sguardo, ci rendiamo conto che questo uso ha significati più profondi. L’articolo davanti al cognome di una donna e non davanti a quello di un uomo evidenzia un’idea di base: marcare specificamente il femminile mentre il maschile resta neutro riflette un ordine mentale in cui è considerato la norma e il femminile l'eccezione. Prendiamo, per esempio, nomi come Giorgia Meloni o Taylor Swift. Questi sono personaggi femminili così noti che, una volta nominati, non c'è bisogno di aggiungere l'articolo "la" per identificare di chi si parla. È un automatismo linguistico che dimostra una visione se non patriarcale, perlomeno androcentrica della lingua e, di conseguenza, della società. Questo fenomeno riflette e continua a portare avanti un'idea di superiorità del maschile rispetto al femminile, evidenziando come la lingua non sia neutra ma piuttosto un riflesso delle strutture sociali e culturali dominanti.

Francesco d'Assisi, per il quale la predicazione era uno degli elementi caratteristici dell’essere frate minore, parlava con le persone, le incontrava, sempre seguendo certe “norme” di umiltà. Cosa possiamo trarre dal suo modo di comunicare per il nostro tempo?

Francesco è un esempio affascinante di come la comunicazione e l'interazione umana possano essere praticate in modo profondamente inclusivo e umile. Col suo comportamento ha incarnato i principi che promuoveva. Questo approccio ha una grande rilevanza anche per noi oggi. La sua predicazione e il suo modo di relazionarsi con le persone riflettevano una profonda comprensione dell'importanza dell'incontro diretto e dell'umiltà. Francesco non si limitava a parlare della fratellanza e dell’uguaglianza; viveva queste idee, dimostrando che le parole e le azioni devono andare di pari passo. La sua modalità di comunicare, improntata sull'inclusività e sulla considerazione degli altri come fratelli e sorelle, è qualcosa che possiamo recuperare. Parlava di tutti, inclusi gli animali, considerando anche loro come parte di una grande famiglia di creature. Questo tipo di inclusività linguistica, che rispetta e riconosce ogni essere come parte di un sistema più ampio, è particolarmente preziosa. È una visione olistica che potrebbe essere applicata anche oggi in contesti di ecoattivismo e di rispetto per l'ambiente.
Inoltre, Francesco sottolineava l’importanza dell'incontro diretto con le persone, andando tra di loro e parlando faccia a faccia. Questa dimensione dell’incontro umano è qualcosa che spesso tendiamo a trascurare nella nostra società odierna, fortemente mediata dalla tecnologia. Molte delle nostre interazioni sono virtuali e a volte manca quella connessione personale che il Santo valorizzava così tanto.
Il sociologo Marshall McLuhan, all’inizio dell’era digitale parlava del “villaggio globale”, immaginando un mondo connesso dove tutti avremmo vissuto come in un grande e unico villaggio. Tuttavia, pochi anni dopo un altro sociologo, Manuel Castells ha proposto una visione diversa: le "villette a schiera" personalizzate, ipertecnologiche e circondate da alti muri. Questa metafora descrive bene la nostra società attuale, dove viviamo in spazi personali isolati e non ci interessa più ciò che succede al di là del nostro confine.
Questo isolamento e individualismo sono riflessi anche nella mancanza di rispetto per il bene comune. Le cose collettive vengono spesso considerate di nessuno, mentre dovrebbero essere di tutti. L'accento posto sul benessere individuale e sul capitalismo ha portato a una sorta di “egoismo collettivo”, in cui ci dimentichiamo che nessuno si salva da solo.

Come si intrecciano linguaggio e globalizzazione?

La relazione tra linguaggio e globalizzazione è complessa e presenta diverse sfaccettature. Da un lato, la globalizzazione e la digitalizzazione hanno portato a una contaminazione linguistica che può essere vista in una luce positiva. Ad esempio, molti giovani artisti italiani, come Ghali, Mahmood e altri, integrano nelle loro canzoni non solo l'inglese, che è ormai un dato di fatto, ma anche altre lingue come l'arabo. È interessante e innovativo vedere parole come "habibi" usate all'interno di testi musicali italiani. Questo fenomeno riflette un'apertura verso influenze reciproche e arricchisce il nostro panorama linguistico, mostrando come la nostra società può trarre beneficio dalla mescolanza di diverse culture e lingue. D'altra parte, la globalizzazione ha anche effetti negativi sulla diversità linguistica. Gli idiomi che non hanno un impatto commerciale significativo, quelli minori, sono particolarmente vulnerabili e rischiano di scomparire. Il capitalismo tende a favorire le lingue che hanno un valore economico o commerciale, mentre quelle che non rientrano in queste categorie sono spesso trascurate. Per questo motivo, l'UNESCO ha dichiarato il decennio 2020-2030 come il Decennio delle Lingue in Estinzione. L’obiettivo è preservare e promuovere le lingue minori, come si stanno recuperando specie di api autoctone o varietà di grani e vitigni locali. La loro scomparsa non è solo una perdita linguistica, ma comporta anche la perdita di interi mondi di conoscenza e visioni uniche.
La globalizzazione di per sé non è né positiva né negativa. È un fenomeno che semplicemente accade e presenta sia aspetti da apprezzare sia elementi su cui è necessario vigilare. Dobbiamo riconoscere i benefici della contaminazione linguistica e culturale, ma allo stesso tempo essere consapevoli dei rischi per la diversità linguistica e lavorare per preservarla, per non perdere pezzi fondamentali della nostra eredità culturale e conoscitiva.

Viviamo in una società in cui c'è un parossismo di parole. Cosa puoi dirci riguardo al silenzio?

Questo tema del parossismo di parole è stato già esplorato da Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane. Parlava di una sorta di “fantasmagoria” di parole e immagini. La sua riflessione è che ci sono talmente tante parole e immagini che rischiamo l’indigestione comunicativa: siamo sommersi da stimoli, e finiamo per non riuscire ad apprezzarli o a trattenerli, perché la quantità eccessiva ci impedisce di fissarli nella memoria. Questo eccesso di comunicazione può diventare talmente opprimente da creare un senso di saturazione, dove la comunicazione stessa perde efficacia e significato. D'altra parte, il silenzio è essenziale e spesso sottovalutato nella nostra società. Giorgio Cardona, un sociolinguista che purtroppo è scomparso prematuramente, diceva che il silenzio funge da “castone” per le parole, come si incastonano le gemme per farle risaltare. In altre parole, il silenzio fornisce uno spazio e una struttura che permettono alle parole di avere il giusto peso e visibilità. Senza questo, rischiamo di avere un eccesso di linguaggio, una sorta di blob comunicativo che risulta caotico e privo di ordine. Mi sorprende e mi fa sorridere come, nella nostra società, il silenzio venga da un lato eliminato o ignorato - penso a come nelle spiagge, ad esempio, ci sia sempre musica a tutto volume - e dall'altro lato lo si commercia come un lusso. Si sente dire di frequente: «Ho fatto un’esperienza unica partecipando a una vacanza di quattro giorni in silenzio totale in un convento. È stato magnifico». Mi viene da chiedere: ha senso pagare per vivere il silenzio, quando potremmo cercarlo e viverlo quotidianamente nella nostra vita senza trasformarlo in un prodotto commerciale? Dovrebbe essere parte integrante della nostra quotidianità e non considerato come un'eccezione o una merce rara. È essenziale non solo per la meditazione e la riflessione, ma anche per il pensiero creativo. Il silenzio permette di fare spazio alla riflessione e alla contemplazione, proprio come la noia, che è stata completamente emarginata nella nostra società. Questa, infatti, ha una funzione fondamentale: spesso è proprio nei momenti di noia che il cervello ha l'opportunità di creare e innovare. Invece di temere o evitare il silenzio e la noia, dovremmo abbracciarli come parti vitali della nostra esistenza, essenziali per il benessere mentale e creativo.

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