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Latouche: Decrescita sì, ma non felice

Leonardo Martinelli Pixabay
Pubblicato il 31-03-2021

L'economista francese rilegge le sue teorie anche alla luce della pandemia

Un anno fa, con il dilagare del Covid e con il primo confinamento, iniziò a circolare l' irrefrenabile voglia di un mondo nuovo. Qualcuno rispolverò la teoria della decrescita. Era il 2002, quando Serge Latouche, coniò quella parola. Oggi ha 81 anni. Economista atipico francese, ha appena pubblicato in Italia il suo ultimo saggio, Quel che resta di Baudrillard: un' eredità senza eredi , edito da Bollati Boringhieri. Il libro è dedicato a Jean Baudrillard, uno dei padri del postmoderno, che approdò alla semiotica e alla critica del virtuale, e che l' autore ha rivalutato come precursore della decrescita. Eccolo Latouche, ancora oggi non ha un cellulare e si chiude ogni giorno in cima a un vecchio palazzo del Quartiere latino, in questa stanza di nove metri quadri, stracolma di libri e di ricordi. Sorride e ha un fare bonario. Ma, quando apre bocca, resta quello di sempre: schietto, diretto, radicale.

Allora, Monsieur Latouche, ci siamo? La pandemia sarà l' anticamera della decrescita?
«Molti amici ci hanno creduto in occasione del primo confinamento».

E lei?

«Quando tutto o quasi era chiuso, ci furono iniziative autorganizzate e locali. Si poteva pensare: è scoccata l' ora. Ma il problema è che della decrescita se ne parla sempre, ma non si va mai oltre. Io lo sapevo che si sarebbe ritornati rapidamente al business as usual. Ed è quello che sta accadendo».

Ne è proprio sicuro?

«Sì, anche sui temi più moderati e ragionevoli, come la rilocalizzazione produttiva. In Francia ci eravamo resi conto di non essere più capaci di fabbricare le mascherine. Ma le imprese, che vi si sono lanciate, oggi stanno fallendo, perché lo Stato ricomincia a ordinarle in Cina».

Non è troppo pessimista?

«Non lo sono mai stato. Sono in linea con Antonio Gramsci: bisogna stemperare il pessimismo della ragione con l' ottimismo della volontà. Penso, però, che si correrà fino alla fine della follia. La decrescita non è per domani, ma per dopodomani. L' importante è preparare il dopodomani. E i giovani, che sono i più intossicati dal consumismo e dalle nuove tecnologie, sono i più sensibili ai problemi del riscaldamento climatico, alla perdita della biodiversità, alla distruzione dell' ambiente. Ci sono sempre ragioni per sperare e la generazione di Greta Thunberg è una di quelle».

Si parla di decrescita felice. È sua l' espressione?

«No, l' aggettivo l' ha aggiunto un altro studioso, Maurizio Pallante. A me non piace. Il concetto di felicità è nato con l' emergere della borghesia all' epoca dei Lumi e dello sviluppo del capitalismo. In fondo è la corsa a un Pil pro capite più alto e niente di più. Passa accanto alla cooperazione, l' altruismo, le sorgenti di felicità che non sono materiali, come l' amicizia, l' amore, anche la religione».

E la decrescita si riduce a una mera recessione? Lo dicono certi suoi detrattori 

«No, significa che bisogna uscire dalla società della crescita, da quel paradigma».

Anche i 5 Stelle parlavano di decrescita 

«Incontrai più volte Beppe Grillo, una personalità brillante, già quando era praticamente l' unico oppositore a Berlusconi. Cercò di coinvolgermi nel suo movimento ma io non volli. Gli dicevo: se volete adottare le mie idee, ne sono contento, ma non servirò da cauzione a un movimento politico. Poi ho sempre pensato, proprio come Baudrillard (1929-2007), che, quando si vuole prendere il potere, ci si fa prendere dal potere. Una volta al governo i 5 Stelle hanno fatto quello che hanno potuto. La loro esperienza politica è stata deludente ma non costituisce motivo di disonore».

E Draghi applicherà la sua teoria della decrescita?

«Non mi sembra interessato. Come economista classico, ha dentro di sé il software della crescita. Non credo neanche che gli importino molto i temi ecologici, che gli economisti considerano effetti collaterali. Ma Draghi è un tecnocrate per eccellenza, più che un ultraliberale. È un pragmatico, l' ha mostrato anche alla Bce. È il "meno peggio" che poteva capitare oggi all' Italia».

Lei ha dedicato una biografia intellettuale a un pensatore un po' dimenticato, Baudrillard, ma che è a\ncora un riferimento per tanti critici dell' ultraliberismo. Lo fu anche per lei?

«Il suo saggio, La società de consumi (1970), ebbe un' influenza su di me, come su tutta una generazione di studiosi. Eravamo amici. Ci vedevamo, discutevamo. Ma, quando uscì Della seduzione (1979), quel saggio non mi convinse per nulla. Non è che ci litigammo, ma le nostre strade si divisero. In quegli anni lavoravo sulla critica allo sviluppo e all' economia, pure all' interno del marxismo. Baudrillard, invece, era appassionato del virtuale».

Criticava l' iperrealismo di un mondo in cui l' immagine appare più reale dell' originale, l' alienazione del cyberspazio. Erano gli Anni 80. Era un precursore 

«Me ne sono reso conto solo pochi anni fa. Per questo ci ho scritto un libro. È stata una scoperta, mi sono reso conto della sua modernità. Alla fine della sua vita tutto per lui era diventato virale: la viralità biologica, ma anche informatica. Oggi siamo dentro a queste cose. In pieno». (La Stampa)

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