La ricetta dell'uguaglianza
Crescente disuguaglianza, disagio sociale e instabilità politica: un'analisi
Crescente diseguaglianza, disagio sociale e instabilità politica sono tre aspetti dello stesso problema che dalla grande crisi del 2008 accomuna il mondo occidentale. L’Italia non fa eccezione: il coefficiente Gini (che ha valore 0 se tutti hanno lo stesso reddito e 100 se uno solo ha tutto il reddito) mostra come da noi la disuguaglianza sia costantemente aumentata nell’ultimo decennio (da 31,2 a 33,4) e sia oggi superiore a tutti i paesi dell’Eurozona, con la sola eccezione di Lettonia e Lituania.
L’opinione corrente è che la disuguaglianza trovi origine nella concorrenza al nostro sistema produttivo indotta dalla globalizzazione, e dalla discontinuità tecnologica (internet e digitale) che ha beneficato solo i pochi dotati delle professionalità o del capitale necessari per avvantaggiarsene. E sarebbe accentuata da un trend secolare che favorisce chi detiene il capitale in quanto il suo rendimento è storicamente superiore alla crescita dei salari. Bisogna però analizzare con maggiore attenzione i dati sulla distribuzione del reddito e della ricchezza (fonte Eurostat e Ocse) per ottenere un quadro più preciso del problema e delle misure che si dovrebbero adottare per contrastare il fenomeno. Il coefficiente Gini italiano prima del pagamento delle pensioni e del sistema di welfare è inferiore alla media dell’Eurozona (48,3 rispetto a 49,2): non è quindi il funzionamento del nostro sistema economico la prima causa della maggiore disuguaglianza. Se poi si tiene conto della spesa pensionistica, la distribuzione del reddito italiano diventa in linea con la media europea.
La vera causa del nostro coefficiente Gini superiore alla media è l’impatto trascurabile del welfare rispetto agli altri Paesi: un vecchio problema che si aggrava nel tempo, visto che la quota di reddito disponibile del 20% più povero si è ridotta ulteriormente nel decennio, al di sotto della media nell’Eurozona (6,6% rispetto a 7,8 per cento). Bisognerebbe ricordarlo quando si sottraggono risorse pubbliche per darle alle pensioni, come con quota 100, a discapito di un welfare indispensabile per ridurre le disuguaglianze. Ed è oltremodo velleitario pensare di finanziare il welfare nazionale con una tassa sui pochi che dichiarano redditi elevati. La quota di reddito del ceto medio, definito come quelli con redditi compresi tra il 40% e il 60% del totale (terzo quintile), è rimasta pressoché costante nel decennio. Pertanto il suo disagio non è spiegabile da una distribuzione sfavorevole, ma da una crescita insufficiente del reddito di questo quintile: appena l’8% nel decennio, a fronte di un costo della vita aumentato di quasi il doppio. Inoltre, il ceto medio italiano, che già nel 2008 partiva con un reddito inferiore alla media dell’Eurozona, ha visto il gap aumentare costantemente.
Servirebbero quindi politiche di crescita, più che di distribuzione. E poiché non c’è crescita senza imprese che investono, fanno profitti e crescono, servirebbero investimenti pubblici capaci di promuovere quelli privati e un taglio delle imposte alle imprese. La nostra poli tica fiscale è invece unicamente redistributiva, e le misure che adotta spesso nuocciono alla crescita: come la spesa pubblica finanziata col debito che, causando un aumento dei tassi di interesse, rallenta l’economia; o la proliferazione di incentivi, sussidi, sgravi, agevolazioni che creano rendite di posizione a favore di interessi particolari, riducendo l’efficienza del sistema economico. La differenza di reddito tra chi ha una scolarizzazione elevata rispetto a chi ha completato solo la scuola primaria e secondaria è rimasta pressoché costante nel decennio, a differenza di molti Paesi europei (+51% in Germania!). La discontinuità tecnologica come spiegazione della crescente disuguaglianza in Italia non appare corroborata dai dati. Conseguenza di un settore tecnologico che da noi costituisce una quota di Pil inferiore ad altri Paesi industrializzati. Il dato più significativo però è la profonda differenza nella disuguaglianza dei redditi che prevale all’interno delle varie regioni: mentre regioni del Nord-Ovest (Veneto e Friuli) hanno un coefficiente Gini in linea con la media dei paesi scandinavi, al Sud Sicilia e Campania hanno un coefficiente medio superiore alla Grecia e di poco inferiore alla Turchia. Va sottolineato che non si tratta del divario Nord-Sud , ma di quello tra i residenti di una data regione. Ovvero il sistema economico al Nord produce, a parità di politiche nazionali, una distribuzione del reddito più equa che al Sud.
Parlare quindi di un problema nazionale di redistribuzione del reddito è fuorviante. Se invece del reddito si guarda alla ricchezza, l’Italia è il Paese con la distribuzione meno iniqua dell’area Ocse, con la sola eccezione del Giappone. Da noi il 5% più ricco detiene il 29,7% della ricchezza totale rispetto al 45% medio di Francia, Germania e Olanda, o al 68% degli Usa. La ragione è che la ricchezza da noi è più che altrove immobiliare e molto ampiamente distribuita. Secondo il Mef, ben il 75% delle famiglie italiane vive in casa di proprietà (e il 63% di chi dichiara un reddito). L’ipotesi che la disuguaglianza sia dovuta all’elevato ritorno sul capitale dei pochi che la detengono non regge alla prova dei fatti. Se veramente si volessero adottare misure fiscali sulla ricchezza per redistribuire il reddito, si dovrebbero tassare i proprietari di immobili per sostenere il reddito di chi non ne ha. Ma quale governo lo farebbe visto che toccherebbe il portafoglio del 75% degli italiani? Infatti, si è fatto il contrario: l’Agenzia delle Entrate stima in 5,1 miliardi annui la riduzione della tassazione degli immobili tra esenzioni sulla prima casa e agevolazioni per ristrutturazioni e riqualificazioni energetiche. Anche per la disuguaglianza dovrebbe valere il motto "se la conosci, la combatti".
di Alessandro Penati - Repubblica
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