Il Terzo settore alla sfida europea
L’impresa sociale non deve essere prigioniera del «piccolo è bello»
Il dibattito avviato con l’articolo di Ferruccio de Bortoli (Buone notizie,1 settembre 2020), con l’intervento della ministra Nunzia Catalfo e con quelli di molte altre voci sulla necessità non solo di non dimenticare,ma di ampliare l’utilizzazione e la valorizzazione del Terzo settore nell’ambito dei programmi di utilizzo dei fondi europei merita di essere coltivato con la massima energia. La posta in gioco è alta. Il Terzo settore può avere l’occasione di essere tra i protagonisti del nuovo corso, ma rischia pure di essere (continuare a essere, verrebbe talvolta da dire) relegato nel cono d’ombra dell’assistenzialismo, della beneficenza, dell’aiuto per la sopravvivenza di chi sta indietro. Il Terzo settore considerato in blocco, indipendentemente dagli ambiti in cui opera, debba esser preso in considerazione come destinatario di una doverosa beneficenza in nome di un generico assistenzialismo, al più in nome di una generica, imprecisata, funzione sussidiaria.
Occorre viceversa rendersi ben conto che il Terzo settore opera in vari comparti.Può essere veroche la forma dell’attività e l’interesse generale che lo sottende aiutano la coesione sociale, la difesa delle componenti più deboli della società.E ciò certamente giustifica un’attenzione anche nella destinazione dei fondi europei, data la rilevanza, fine a se stessa ma anche funzionale agli altri obiettivi primari, della coesione. È pur vero tuttavia che alcuni, importanti filoni di attività del Terzo settore hanno una valenza ulteriore: molti soggetti operano proprio in «settori chiave» per un ammodernamento del Paese nelle direzioni volute dal programma europeo New generation, come pure rispetto ai tanto discussi fondi Mes.
L’impresa sociale, a sua volta, deve essere liberata dall’immagine del tempo in cui «Berta filava». L’impresa sociale è infatti una realtà flessibile, molto più di quanto si pensi, non è affatto incompatibile con le esigenze di startup, non è necessariamente prigioniera del «piccolo è bello». Sul piano progettuale, la reazione alla tentazione di eliminare o emarginare il Terzo settore rispetto al perseguimento degli obiettivi che le risorse europee richiedono dovrebbe essere nel senso della inclusione espressa, diretta, del Terzo settore (dei soggetti del Terzo settore operanti nelle aree interessate) tra i destinatari delle risorse quali perimetrati nei vari programmi. E ciò, ripeto, forse a cominciare proprio dall’area sanità-welfare. Il Terzo settore costituisce, per la forma giuridica in cui opera, una modalità di collaborazione pubblico-privato preziosa, capace di superare le criticità del sistema sanitario pubblico-privato oggi largamente diffuso.
Sul piano operativo merita grande attenzione e cautela, a mio parere, l’idea di far transitare aiutie provvidenze al Terzo settore attraverso i fondi speciali previsti dal Codice del Terzo settore o dalla normativa sulle imprese sociali. Altrettanto poco convincente è giocare solo la carta del trattamento fiscale di favore. Necessariamente - fatto salvo,ripeto, il valore del Terzo settore in sé, nel suo complesso - anche le imprese e i soggetti del Terzo settore dovrebbero poter partecipare in modo differenziato alle priorità di obiettivi di New generation. Certo, vi è il rischio di una omologazione del Terzo settore alle logiche delle imprese tradizionali (chiamiamole, per comodità, imprese «a fini di lucro»). Ma una coraggiosa presenza qualificata del Terzo settore nella nuova fase non rende persa sin dall’inizio la sfida. Spetta allora al governo coinvolgerlo, ma spetta anche alTerzo settore mettersi in gioco con coraggio e senza pregiudizi. (Corriere della Sera)
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