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Il 'sequel' dell'Odissea arriva adesso

Antonio Spadaro - Robinson, La Repubblica Jacob Jordaens - The Yorck Project / Wikipedia
Pubblicato il 27-02-2021

Il poema di Nikos Kazantzakis è stato tradotto soltanto ora da Nicola Crocetti. E sembra un vademecum del XXI secolo

(di Antonio Spadaro, da Robinson - La Repubblica)

«Dio, toglimi la prudenza, che si aprano le tempie, / si apra la botola della mente e prenda aria il mondo». È la preghiera del poeta cretese Nikos Kazantzakis (1883-1957) nel prologo della sua Odisea, con una sola s nel titolo originale per distinguerla umilmente da quella omerica. E questa preghiera apre un canto imprudente che squaderna un viaggio aperto, senza ritorno. Però Ulisse nasce proprio come l’eroe del ritorno. Quando giunge a casa, ringrazia così il suo guardiano di porci Eumeo: «Non altro male è maggiore ai mortali dell’andar vagabondo». I moderni invece esaltano il viaggio come manifestazione di libertà e come fuga dalla necessità.

Per i romantici la stessa indeterminatezza del vagabondaggio, così difficile da sopportare per l’Ulisse omerico, è la fonte di quella liberazione che dà valore al viaggio. Ed eccoci a Kazantzakis. Il clima spirituale dell’Odissea di Kazantzakis – iniziata nel 1924 e pubblicata nel 1938 – è proprio questo spirito romantico. Tra le tante reinterpretazioni dell’eroe omerico questa ha la peculiarità di riportarlo nella lingua greca. E, in particolare, nel decaeptasillabo – un verso di diciassette sillabe, di passo sempre serrato, martellante, ma flessibile – disteso in 33.333 versi suddivisi in 24 canti, il numero delle lettere dell’alfabeto greco e pure dei canti dei poemi omerici.

L’opera è pure una vera “odissea” linguistica e lessicale. Quando il poema fu pubblicato le persone colte del Paese parlavano e scrivevano una lingua dotta, incomprensibile al popolo, che parlava invece la lingua popolare, amata profondamente da Kazantzakis, che ha girato la Grecia con l’orecchio teso, ascoltando dalla voce del popolo la parola ancora vergine e non macchiata dall’inchiostro. Per questo usa circa duemila parole non censite dai dizionari, ma impiegate da pastori, contadini, pescatori, dei marinai, lemmi custoditi nei villaggi di Creta e delle isole dell’Egeo, varianti dialettali e invenzioni lessicali. Una vera immersione nella tradizione orale, dunque, che renderebbe l’opera quasi intraducibile.

Si tratta spesso di aggettivi composti, come fengarolampyroúsa («che risplende come la luna») o anthodrosomiloúsa («che parla come un fiore coperto di rugiada»). Le immagini sprigionate da questa lingua – tradotta straordinariamente in italiano da Nicola Crocetti con un verso lungo capace di restituire solennità e leggerezza – si susseguono splendide e nitide. Il sole è toro che monta la giumenta-terra, goccia di fico mielato, testa mozza che rotola sulle sabbie d’Egitto. La luna è una fibbia di madreperla; il Sonno un mare di alghe dove affonda il corpo stanco, i ricordi fiori di mandorlo.

Chi è Ulisse? Per Omero era il “politropo”, cioè multiforme, versatile, ingegnoso e astuto. Kazantzakis fa esplodere le definizioni e ce lo descrive linguisticamente con 103 epiteti, tra i quali, ad esempio, l’Uomo dai mille tormenti, l’Inaddolcibile, Mente di avvoltoio, il Conoscicuori, l’Assediato dalle ombre, lo Schernitore del cielo, Canzonadèi, Distruggimondi, Milleaffanni, Danzatore di luce, Setteanime, Petto di mare, Fiato ferino.

All’Ulisse di Kazantzakis Itaca e l’amore di Penelope non bastano più. Ulisse vuole perdere la strada del focolare domestico. Itaca è ormeggio, non porto. Confessa: «La patria mi stava stretta». Sente che è «buono il pane del viaggio e l’esilio è miele, per un istante eri felice, godevi ogni tuo amore, ma presto soffocavi, e a ogni amante dicevi addio». E conclude: «Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio!».

Ulisse parte dopo aver mandato una nave a riprendere Nausicaa per darla in sposa a Telemaco, così che gli assicuri la nascita di un nipote. Il suo equipaggio è composto da personaggi quali l’anziano Capitan Conchiglia, un anziano marinaio; Capitan Centauro, un grassone di buon cuore; Bronzista, il maniscalco del palazzo di Itaca; Orfeo, un flautista un po’ matto; Granito, un giovane fratricida. Nulla a che vedere rispetto a una compagnia “mitologica” che si rispetti, dunque. Semmai diremmo donchisciottesca. Sbarca a Sparta e rapisce Elena a Menelao: la bellezza deve essere compagna dell’ultimo viaggio. E anche Elena è definita dai suoi nomi: Figlia del Cigno, Passo di colomba, Guance di giglio, Inondata di sole, Labbra di corallo, Caviglia di neve, Placapassioni…

Poi approda a Creta, baricentro del poema. Quindi affronta di nuovo il mare per dirigersi in Egitto. È un inquieto ricercatore di luoghi sconosciuti e di verità sepolte, quasi fosse Mosè. In Africa incontra alcune figure che rappresentano i momenti fondamentali dell’esperienza interiore: il Principe della Terra, che allude al Buddha; la prostituta Margarò, che è l’emblema dell’eterno femminino nella forma di una anti-Penelope; Capitan Uno, che rinvia all’idealismo di Don Chisciotte; un Fiero Cantore, l’alter ego dell’autore. Su una spiaggia incontra un «Pescatore di anime», che è Cristo, il quale gli parla di un Dio Padre immortale «senza la spada in mano, senza la fiamma in cuore» e predica l’amore e la pace. Ulisse gli ribatte che nel mondo regnano il male e l’ingiustizia: «La parola disarmata, amici, non può fare la guerra alla spada dell’ingiustizia sperando di sconfiggerla». All’alba i due si separano abbracciandosi, e Ulisse lancia in mare la sua barca. Giunto all’estremità meridionale dell’Africa, Ulisse decide di procedere da solo verso il Polo Sud. Ormai sa di avere come capitano la Morte e si dispone senza speranza e senza paura: «Il cuore batte profondo e gioca, gli occhi brillano, / la mente libera e sola plana avanti e indietro, come / l’aquila veloce; il tempo è vinto, lo spazio affonda, / e anche le gioie più antiche rifulgono in un attimo». Avendo sullo sfondo l’aurora australe e la grande distesa dei ghiacci, Ulisse sale su un iceberg prima della sua fine e convoca a sé una carovana di ombre: i compagni, le donne che ha amato e chi ha incontrato in vita. Ulisse così dice addio alla vita. Poi «tutto svanisce come bruma, soltanto un grido resta / sospeso per brevi istanti sulle calme acque notturne: “Avanti, amici, soffia propizia la brezza della Morte!”».

L’Ulisse di Kazantzakis è mosso da un istinto antiborghese, non convenzionale, trasgressore. Avvia un’analisi delle grandi questioni esistenziali dell’uomo non da eroe della veste epica, ma da visionario. Mentre scrive, il poeta cretese abita con la moglie Eleni in una casetta spartana che aveva acquistato a Ègina. La sua contemplazione è istinto, ispirazione e avventura, non emozione estetica, contemplazione intellettuale e calma filosofica.

Ulisse adesso vuota l’Olimpo dagli dèi e si converte alla rivoluzione umana di Lenin e poi il suo tormento lo spinge ad Assisi – dove vive per due mesi e mezzo nel ’24 –, affascinato dalla figura di San Francesco. Vediamo un idealista romantico, che veste i panni del Mosè biblico, e che trascolora in un capo rivoluzionario, che però litiga con Dio che sembra mandare a monte le sue utopie. Ricordiamo l’opera filosofica di Kazantzakis Ascetica. I salvatori di Dio dove si pensa a un Dio che non è onnipotente, così che noi possiamo stare a braccia conserte aspettando la sua vittoria certa. La sua salvezza per Kazantzakis dipende da noi, e soltanto se lui si salva ci salveremo anche noi. Ecco il suo Credo così come lo scrive a conclusione di Ascetica: «Credo in un solo Dio, custode dei confini, di duplice stirpe, militante, sofferente, potentissimo ma non onnipotente, combattente alle frontiere più remote». Sia chiaro: Ulisse è un visionario, ma il suo mondo non è astratto e logico. È invece sempre radicalmente sensuale, muscolare, istintivo. Versi di straordinaria bellezza sono quelli incastonati nel canto XVI e dedicato ai cinque – per lui insaziabili – sensi. Ulisse canta l’occhio, «lacrima calda della mente»; canta l’orecchio, «conchiglia della spiaggia nascosta»; canta il gusto rappresentato dalla bocca, «labbro scarlatto su cui resta il gusto dei baci dati, / vino pastoso, miele inebriante, pesca vellutata»; canta l’olfatto, «segugio che sa che il profumo è un ricordo denso, e quando si risveglia / con che violenza saccheggia il fortino della mente!». Canta il tatto, «occhi infiniti sui capezzoli delle dita».

Kazantzakis vede il suo Ulisse come un uomo che ha reciso tutti i legami, gli schemi e le strutture per rendere capaci i propri appetiti vitali di abbracciare ed esaurire tutto, tutta l’esperienza. Cioè: si confronta con la morte perché non vuole che essa gli strappi nulla perché quando arriverà non ci sarà più nulla da strappare. Ma forse è proprio qui il suo naufragio, la sua vera tragedia.

di Antonio Spadaro, su Robinson de La Repubblica

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