Sulle tracce delle belve per ritrovare se stessi
Sylvain Tesson attraverso i suoi viaggi nella natura porta il lettore verso la cruda essenza
Benedico mio padre che prima di andarsene mi educò alla montagna e al bosco. Di solito ci dirigevamo verso il Gran San Bernardo, quello valicato da Napoleone – rintracciate quell’impresa in Vertigini, eccezionale romanzo di W.G. Sebald – e dove, secoli prima, i Romani avevano eretto un tempio a Giove Pennino, o nelle Alpi Marittime, al confine con la Francia, sull’Argentera. Mi insegnò a guardare gli stambecchi e i camosci, a inseguire le marmotte. Più di una volta incontrammo la volpe, specie di fibbia che unisce questo e altri mondi.
Un libro di L. David Mech dedicato al Lupo artico, con bellissime fotografie, fu il sigillo del rapporto con mio padre. Morì che avevo dieci anni, ero convinto che si fosse trasformato in un lupo artico. L’epica grigia, metropolitana, ha ridotto la bestia ad animale domestico, schiavo. Nei macelli le vacche vengono messe in scatola, i polli fatti a fette, lucidi, nel velo plastico, di modo che la morte non ci offenda. Dei cagnetti, scaltri quanto i loro padroni, si raccolgono le feci (naturali) dall’asfalto (innaturale).
Nonostante San Francesco, una rapida interpretazione del cristianesimo – che proviene dai deserti e lì accade – esalta l’uomo minimizzando a simbolo – cioè a orpello – la primordiale potenza degli altri esseri. L’arte occidentale ha fatto del ritratto di un uomo l’apice della sua grandezza, eppure Sylvain Tesson ci ricorda che se l’uomo, creatura recente, è poco meno di un angelo, alcune bestie, i granitici predatori, ad esempio, sono qualcosa di simile a un dio. Eleganza, candore nellaferocia, capacità di adattarsi all’estremo, indole alla libertà, al vero della vita, autosufficienza, sopportazione.
«Fu un’apparizione religiosa… Era padrona della sua vita. Era la formula del luogo. La sua sola presenza esprimeva il suo “potere”. Il mondo era il suo trono. Incarnava il misterioso concetto del ‘corpo del re’. Un vero sovrano si limita a essere. Non si prende il disturbo di agire ed è dispensato dal mostrarsi. La sua esistenza èilfondamento della sua autorità. Il presidente di una democrazia, invece, deve farsi vedere continuamente per animare la piazza».
Il re bestia non ha bisogno di consenso. Non ha bisogno di nulla. È intoccabile. Qui Tesson – siamo a pagina 113 di un libro indocile e miracoloso – racconta la prima apparizione dellaPantera delle nevi (Sellerio 2020, pagg. 174, euro 15). Si è avventuratoin Tibet da guascone, Tesson, accompagnando il fotografo naturalista Vincent Munier, privo della cultura déco di un BruceChatwin, senza ambizioni di esotismoletterario o giornalistico, come V.S. Naipaul o Ryszard Kapuś cinzki(eccezionali scrittori, per altro). Tesson è un tipo strano: più prossimo a un viaggiatore antico, al vento del fato – Guglielmo di Rubruck, per dire –, a volte mi pare che tenti di replicare il gergo fermo dei predatori, l’urlo delle rocce. Figlio di un giornalista importante, Philippe Tesson, già fondatore e proprietario di Le Quotidien de Paris, a vent’anni attraversa in bici l’Islanda, a venticinque è sull’Himalaya, il nuovo millennio lo vede dal Kazakistan.
Dieci anni fa con Nelle foreste siberiane (pubblicato in Italia da Sellerio) comincia a pubblicare per Gallimard, ottiene il Prix Médicins, racconta il viaggio come sola ribellione al mondo cittadino, civilizzato, periferico alla vita, che alla sfida ha preferito il confort, alla regola dell’azionee della contemplazione, della lotta e della preghiera, quelle del Pil, dell’obbedienza bieca allo stipendio mensile. Le Panthère des neiges ha vinto, l’anno scorso, il Prix Renaudot – andato, tra gli altri, a Céline, per Viaggio al termine della notte, a Georges Perec per Le cose e a Emmanuel Carrère per Limonov.
«Ogni viaggio è una fuga. Scappo dalla noia, dall’obbligo di dovermi sottomettere ai dettami della nuova società. Fuggo dal diktat della macchina, dell’amministrazione burocratica, di tutto ciò che ci imprigiona. Non sono fatto per questo mondo. Sono totalmente inadatto a unmondo governato dall’ordine cibernetico, mercantile, sanitario, tecnico, “di sicurezza”. Non mi interessa starci per cui per me è necessario fuggire», ha detto in un’intervista Tesson.
La pantera delle nevi non è un capolavoro, è un libro che fa venire voglia di mollare tutto (ma cosa abbiamo, poi?), che è puremeglio. Tesson non è paladino di nulla, non si fa portavoce di alcuna istanza ambientalista: non aggioga lo splendore alla legge. Insegna l’arte rivoluzionaria dell’attesa («E anche se non succede niente, la qualità del tempo passato in quel modo è di gran lunga migliore a causa dell’attenzione»).
Riporta l’uomo alla sua natura audace. «Io capivo perché i mongoli volevano lasciare i loro morti nella steppa a marcire. Se mia madre l’avesse chiesto, mi sarebbe piaciuto andare con gli altri a deporre il suo corpo in un anfratto dei monti Kunlun. Gli avvoltoi lo avrebbero dilaniato e poi, a loro volta, sarebbero stati preda di altre bocche, si sarebbero diffusi in altri corpi – topo, gipeto, serpente – permettendo al figlio orfano di immaginare sua madre nel battito di un’ala, nell’ondulazione di una squama, nel fremito di un vello». Porterò mio figlio nelle stesse montagne in cui mi portava mio padre: forse riconosceremo il nonno in una bestia, in un agguato, nell’arguzia di una pianta.
Da bambino amavo le illustrazioni al Libro della giungla dei gemelli Detmold, straordinari artisti inglesi vissuti ai primi del Novecento, colti da destino tragico. Il figlio della giungla, Mowgli, arso da una tenebrosa, indocile nostalgia, era pericoloso ed esatto, tanto quanto la pantera che gli dormiva al fianco. (Il Giornale)
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