L'anticipazione. Lo stipendio del Papa e i soldi della Chiesa

Redazione Avvenire
Pubblicato il 15-05-2019

Quanto guadagna un Pontefice? A che serve l’Apsa? In un libro la risposta a queste e altre domande

Pubblichiamo un estratto dal libro «I soldi della Chiesa. Ricchezze favolose e povertà evangelica» di Mimmo Muolo, vaticanista di “Avvenire” (Edizioni Paoline, pagine 200, euro 12,75). Il volume è stato presentato ieri al Salone del libro di Torino. All’incontro, moderato da Alberto Chiara di “Famiglia Cristiana”, hanno partecipato, insieme all’autore, Leonardo Becchetti e Giulio Tremonti. (...)

Il Papa ha uno stipendio? In effetti, se si pensa che il pontefice ha pure il ruolo di capo dello Stato, non ci sarebbe nulla di strano. Anche il presidente della Repubblica italiana e la regina Elisabetta hanno un loro appannaggio. Per la figura del Papa, invece, nulla di tutto questo. Egli è, come abbiamo visto, formalmente un monarca assoluto. Tutto è suo, dunque, ma nulla gli appartiene.

Il distacco evangelico dai beni mondani si manifesta anche in questa forma. Il Pontefice ha tutto quello che gli serve per il proprio sostentamento e per la propria missione, ma niente – neanche un centesimo – si può considerare di sua proprietà. Prerogativa, questa, che non è certamente solo di Francesco, ma appartiene anche a chi lo ha preceduto. Basti pensare al testamento di Giovanni Paolo II e al fatto che, ad esempio, Benedetto XVI, autore di libri da milioni di copie vendute in tutto il mondo, ne abbia lasciato tutti i proventi alla Santa Sede. (...)

L’Apsa Eretta da Paolo VI con la Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae del 15 agosto 1967, l’Apsa (acronimo che, come già ricordato, sta per Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica) ha il compito di amministrare i beni di proprietà della Santa Sede e quelli ad essa affidati da altri enti della Santa Sede, destinati a fornire fondi necessari all’adempimento delle funzioni della Curia Romana. Dal punto di vista storico, questo organismo affonda le radici nelle vicende legate ai profondi cambiamenti innescati dalla presa di Roma nel 1870.

Ma ha subito modifiche anche dopo il 1967, l’ultima in ordine di tempo proprio a opera di papa Francesco. In principio fu Leone XIII nel 1878 a nominare nella persona del suo segretario di Stato, il cardinale Lorenzo Nina, un amministratore del patrimonio rimasto alla Santa Sede dopo la breccia di Porta Pia. Cinque anni più tardi lo stesso Papa della Rerum novarum costituì una Commissione di porporati per sovrintendere con voto consultivo all’amministrazione dell’Obolo e del patrimonio della Santa Sede.

E nel 1891 affidò a questa Commissione la diretta amministrazione dello stesso patrimonio, estendendola a tutti gli altri rami e affari economici direttamente e indirettamente connessi. Fu poi Pio XI, dopo i Patti Lateranensi, a disporre una riforma che sostanzialmente divise il dicastero in due sezioni: quella Ordinaria, che adempiva i compiti prima riservati all’amministrazione dei beni della Santa Sede, e quella Straordinaria, che aveva lo scopo di gestire i fondi versati dal governo italiano alla Santa Sede in esecuzione della Convenzione finanziaria allegata al Trattato del Laterano dell’11 febbraio 1929.

La Convenzione finanziaria, infatti, prevedeva un risarcimento di 750 milioni di lire dell’epoca a beneficio della Santa Sede, oltre alla consegna di azioni di Stato consolidate al 5% al portatore, per un miliardo di lire in valore nominale. Parte di questi soldi servì a costruire i nuovi palazzi nello Stato da poco costituito; parte fu destinata all’acquisto di immobili da mettere a reddito; parte fu utilizzata per investimenti finanziari.

Si chiudevano così, anche sotto il profilo economico, le questioni sorte dopo la breccia di Porta Pia, ma pure precedentemente con l’incameramento dei beni degli enti ecclesiastici, soprattutto religiosi, a causa delle cosiddette «leggi eversive ». È comunque bene ricordare, solo per spirito di verità (e senza nessuna nostalgia revisionista riguardo al potere temporale), che il valore dei beni incamerati dal nascente Stato italiano in tutta la Penisola superava enormemente quella cifra. Vi ritorneremo parlando dei beni dei religiosi.

Non solo. Anche prendendo esclusivamente in considerazione le cifre previste dalla legge delle Guarentigie del 1871 e mai pagate, perché quella legge unilaterale dello Stato italiano non fu riconosciuta dalla Santa Sede, l’Italia con quella Convenzione ci venne a guadagnare. Lo ammette del resto lo stesso preambolo della Convenzione finanziaria, laddove è scritto che la somma pattuita come risarcimento « è in valore di molto inferiore a quella che a tutt’oggi [cioè al momento della stipula, l’11 febbraio 1929, nda] lo Stato avrebbe dovuto sborsare alla Santa Sede medesima anche solo in esecuzione dell’impegno assunto con la legge 13 maggio 1871 » (la legge delle Guarentigie, appunto).

Oggi, bisogna riconoscerlo, su questi temi il dibattito si è notevolmente sopito. Ma per molti decenni del secolo scorso il confronto è stato segnato da ripetute polemiche. In merito è bene comunque ricordare che la presenza, al centro della Penisola, di uno Stato enclave come la Città del Vaticano è per l’Italia una grande risorsa. E non certo un problema economico.

Si pensi, ad esempio, a quanti punti di Pil italiano equivalga la « cattedra » del papa, dal momento che essa di fatto contribuisce a un indotto che comprende turismo, ristorazione, alberghi, trasporti, commercio e molti altri settori. Dell’Apsa si parla molto meno che dello Ior. Ciò dipende dal fatto che si tratta, in gran parte, di un servizio interno. Tocca infatti all’Apsa curare gli investimenti finanziari per i dicasteri della Santa Sede e il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, seguendo un codice etico rigoroso.

Nessun privato, ma anche nessun ente esterno al Vaticano, comprese le diocesi o gli istituti religiosi, può avvalersene. Spetta anche all’Apsa curare la manutenzione dei plessi che ospitano i dicasteri della Santa Sede e affittare gli immobili (appartamenti e negozi) di proprietà. Non è un patrimonio immenso: si tratta di circa 1800 appartamenti a Roma e Castel Gandolfo e di 600 tra negozi e uffici. Circa il 60% degli appartamenti è affittato ai dipendenti vaticani a canone fortemente agevolato.

Mimmo Muolo - Avvenire

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