'Io Sono' Andrea Pezzi: 'Rimettiamo l'uomo al centro di tutto'
Icona del piccolo schermo degli anni '90, oggi si presenta al pubblico con un nuovo libro sulla cultura umanistica
Noi che siamo stati adolescenti negli anni Novanta lo ricordiamo bene. Allietava il palinsesto di MTV, con le sue produzioni straordinariamente in anticipo sui tempi. Andrea Pezzi è sempre stato uno di quei personaggi rassicuranti, con il quale intraprendere discussioni di confronto sui più svariati argomenti. Distante ormai dal piccolo schermo, Andrea Pezzi è tornato con un libro, “Io sono - Gli altri per incontrare me stesso", edito da La Nave di Teseo.
Diciamolo subito: "Io sono" non è soltanto un libro, ma anche il nome di un'associazione che presiedi.
«L’associazione e il libro vengono lanciati insieme, è vero. Tuttavia, il libro ha una vita propria che racconta un nuovo modo di stare al mondo, rimettendo al centro di tutto i principi cardine della cultura umanista».
La cultura umanista, ho capito bene?
«Sì. Riscoprire la grande cultura dei classici, in senso laico e cristiano, è essenziale perché raccontano una visione dell’altro intesa come incontro con sé stessi. Praticamente, un’occasione per capirsi. L’esistenzialismo ha fallito nel Novecento, ma oggi quelle domande sono più che mai fondamentali».
Un esempio?
«L’Italia può avere una leadership importante a livello mondiale, anche parlando di tecnologia?»
E la risposta?
«La risposta è sì. Uno dei vanti dell’Università di Berkley è il professore di Etica, nato in Italia. L’Italia non ha tantissime leve per poter vivere da protagonista la rivoluzione digitale in corso».
Da qui l’ambizione di rimettere l’uomo al centro?
«Sì, perché dobbiamo essere consapevoli che la cultura umanista è il nostro vero petrolio. Nella Silicon Valley sostengono l’importanza di mettere i filosofi a capo delle aziende, affinché conducano un processo che sia attento alle reazioni fra uomo e macchina. Questo mentre noi siamo naturalmente immersi in questa sensibilità. L’obiettivo dell’associazione “Io Sono” è quello di fortificare la consapevolezza e agevolare la diffusione di quello che di grande possiamo essere per il mondo».
Colpisce il sottotitolo del libro: “Gli altri per incontrare me stesso”.
«Questo, come dicevo, è un concetto fondamentale della cultura umanista. Amo l’altro per amare me stesso. Se odio l’altro, ho un problema con me stesso. Questo modo di riflettere sui propri indicatori, sui propri sentimenti e sulle proprie emozioni, sui propri errori, non è molto diffuso, ed è necessario che ritorni a esserlo, perché la gente ha bisogno di questo tipo di prospettiva, altrimenti continueremo con il dividere il mondo fra buoni e cattivi. La grande cultura umanista ha lo scopo di introdurre la pace invece che amplificare le divisioni».
In un momento di odio fra simili e rabbia sociale, è un buon antidoto.
«Be’ sì. Manca una sensibilità culturale. Avevamo tutti, una volta, dei solidi punti di ritrovo e di riferimento. Esisteva, tra l’altro, un tessuto con scuole diverse da quelle attuali che riusciva a dare formazione all’essere umano, prima ancora che al professionista. Ognuno di noi deve essere solido come essere umano, e poi tecnicamente preparato come professionista. Abbiamo una formazione che ha certamente spinto molto sull’acceleratore della preparazione tecnica. Siamo bravi in un sacco di cose, poiché la cultura americana è stata forte nel dare formazione tecnica, ma siamo carenti rispetto alla formazione interiore che l’essere umano – primariamente – deve maturare».
Facciamo un esempio?
«Prendiamo i grandi leader, dell’imprenditoria e della politica. Arrivano al successo e si fanno travolgere in una sorta di megalomania che deriva da una fragilità psicologica. Per cui, quando ottengono quello che hanno desiderato, si trovano spaesati e incapaci. Arrivano così alla cima della piramide senza avere alcun valore, e quindi crollano».
Il fallimento alimenta anche la ferocia dei leoni da testiera.
«Attraverso la tecnologia si comincia a odiare senza neppure rendersene conto. Negli anni precedenti, durante le lotte ideologiche in strada, i manifestanti si accorgevano – salvo sporadici casi – che c’era un assurdo invalicabile. Capivano che fare del male a una persona era sbagliato. Il turbamento umano era abbastanza chiaro. Oggi, con Internet, questo non lo vediamo perché la scarica di insulti attraverso i social non è connessa a una corrispondente percezione dell’umanità altrui».
La tecnologia ha un ruolo enorme, fondamentale.
«La funzione della tecnologia è quella di obbligare, nel suo uso più sano; a un’evoluzione dell’uomo, sia per quello che di nuovo consente alla tecnica, che per quello che ogni uomo è necessitato a maturare in sé stesso, per restare all’altezza di tale evoluzione».
Cosa pensi di quelli che diffondono le fake news, distorcendo la realtà?
«Anche in questo caso, è fondamentale riportare sempre il discorso all’uomo. La comunicazione distorta e le fake news devono stimolare me, individuo, ad aumentare lo studio di me stesso, come criterio, per capire e comprendere la realtà. E così persino la falsa informazione può produrre il bisogno di fermarsi ad approfondire».
Stai praticamente cercando di dire che anche le situazioni più fetide e aberranti possono produrre relazioni positive?
«Certo. Questo è un meccanismo importantissimo da capire. Chi è avverso alle politiche di Salvini, non può non riconoscere che, se non fosse stato per quel suo modo di fare, oggi con grande probabilità, Gentiloni non sarebbe il commissario europeo che è diventato. C’è sempre una specie di gioco strano fra il cosiddetto male e il cosiddetto bene. La realtà va incontrata con un altro sguardo, molto pacificato e non manicheo».
Ti ricordiamo a MTV, negli anni Novanta, già innovatore. Cosa è cambiato dai giovani di allora a quelli di oggi?
«Ho scoperto una cosa nel mio percorso giovanile, che credo sia molto utile ancora oggi. Definire i giovani, le loro categorizzazioni sociologiche, le loro propensioni e i loro desideri non è sensato. Posso soltanto dire che questi giovani sono figli di genitori che tendono sempre a dargliela vinta, e subiscono le regole dell’istantaneità prodotta dalla tecnologia. Tuttavia, quando entreranno nella vita reale – e dovranno confrontandosi con il mondo – si renderanno conto che la tecnologia non aiuta a risolvere le questioni davvero importanti. Un rapporto d’amore si costruisce ogni giorno; ci vuole pazienza e tempo, tanto tempo. Una carriera professionale non è fatta di insta-successo… E quando lo è, non dura a lungo. La vita, anche in modo violento, farà capire a questa generazione di giovani – così come ha sempre fatto – ciò che serve per essere felici. E questa massa di generiche promesse si dividerà in persone felici e realizzate, e in persone frustrate e sofferenti. Come sempre».
Mettendo in pratica gli obiettivi del manifesto “Io Sono”, l’Italia potrà farcela?
«Sai, è ovvio che non saremo mai Mark Zuckerberg perché non abbiamo il sistema che ci permette si esserlo; e per fortuna, direi. In ogni caso, se riusciamo a dare un nuovo senso al gioco dell’impresa, saremo sicuramente in grado di essere un faro per tutti».
Domenico Marcella
Twitter: twitter.com/dodoclock
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