Francia. Nella banlieue parigina cuore della rabbia francese
Tra i giovani di Sevran: Qui basta portare la barba e ti prendono per terrorista islamico
«Basta una barba così e possono prenderti per un estremista». Nello stadio ancora vuoto di Sevran, dove inanella fin dall’alba giri su giri con falcata costante, Mohamed, sulla quarantina, ansima e gronda sudore da ogni poro. Ma non si fa pregare per dirci la sua sulle immagini scioccanti che hanno appena fatto il giro di Francia, rimbalzando fra social e tv, in mezzo ad accese polemiche: una scena violentissima di pugilato in strada, fra un poliziotto e un giovane, durante un controllo degenerato sotto gli occhi allibiti di tanti.
Il teatro? Proprio Sevran, poco più di 50mila abitanti di oltre 50 nazionalità. Uno dei comuni più “caldi” della cintura Nord di Parigi, a un tiro di schioppo da Aulnay-sous-Bois e Clichy- sous-Bois, dove nel 2005 partì la scintilla di quel drammatico «autunno dei roghi» che terrorizzò la coda dell’era Chirac. Figlio di profughi del conflitto congolese ma nato in Francia, Mohamed si sfoga, colpito dall’accaduto: «Conosco il giovane coinvolto, è un tipo tranquillo. Ma qui, c’è ormai una guerra aperta con la polizia, inutile nasconderlo. Finirà male, lo sento».
Rievoca l’infanzia nel quartiere-ghetto Beaudottes, la protezione ricevuta dai “grandi fratelli” che arginavano i petits frères, la voglia di farcela partendo da magazziniere in una ditta di calzature fino al posto di capo in un negozio, prima di mettersi in proprio, da padre di una famiglia numerosa. «Sa cos'è un controllo, qui? C’è modo e modo di perquisire e come tutti ne ho subiti troppi sbagliati. Certe volte, da ragazzo, non ci stavo e finiva male. Solo dopo, ho trovato la forza per fare semplicemente la vittima», continua infervorato. «Sono fiero di essere francese, ma c’è un nocciolo marcio di razzismo. E certe volte, mi chiedo se non sia il caso d’espatriare. Non per me, ma per i miei figli. Non voglio vederli finire a spacciare solo perché nel quartiere nessuno vuole più aiutare, neppure gli allenatori sportivi».
Non si ferma, la locomotiva Mohamed, giungendo fino al capolinea delle convinzioni più intime: «Sì, vado alla moschea e prego tutti i venerdì. Le moschee e le chiese svolgono il loro ruolo, tutti chiedono al loro Creatore il perdono e spesso riescono a ricacciare i demoni giù. Ma fra i più giovani, la religione si perde. La radicalizzazione di alcuni è una boiata. In giro, cova tanta rabbia. Quella frase di Sarkozy che voleva “ripulire” le banlieue ci è rimasta conficcata dentro, perché non mi pare che sia stata poi smentita dagli altri».
Affastellamento chiuso di enormi palazzoni, Beaudottes è una tipica cité, parola dal significato a metà strada fra “quartiere” e “cittadella”. Quando si arriva a bassa quota all’aeroporto Roissy- Charles de Gaulle, assomiglia dall’alto a un labirinto di Lego chiari, come tanti altri che costellano la banlieue parigina. Proprio i ghetti rivelati nel 1995, a livello internazionale, dall’uscita del film “L’Odio” di Matthieu Kassovitz. Come Mohamed, anche diversi altri che incontriamo per strade, mercati e dispensari conoscono bene quel film. In particolare, la storiella del «fin qui tutto bene» pronunciato dall'uomo che sta precipitando dal cinquantesimo piano. «Perché nasconderlo? Sì, voglio andarmene da qui. Cerco uno stage in qualche zoo, mi piace lavorare con gli animali», dice Philippe, sulla ventina, costretto «provvisoriamente» a tornare a casa dei suoi, una volta finiti gli studi.
Il suo morfotipo chiaro «europeo» salta all’occhio, in mezzo agli altri ampiamente prevalenti per strada, come in non pochi comuni della Seine-Saint-Denis, il dipartimento “93” tanto stigmatizzato dall’ultradestra. Patrick, pensionato di carnagione nordica, sorseggia una birra al banco del solito bar. Poi sbotta: «Faccio ogni giorno il percorso da casa a qui e ritorno. Punto. Come tanti altri della mia età. Meglio non ciondolare troppo, soprattutto la sera. La mescolanza sociale vantata dai politici è uno slogan forse bello, ma spesso viviamo ognuno per conto suo».
L’anno scorso, il sindaco di sinistra della città, Stéphane Gatignon, si è clamorosamente dimesso per denunciare le promesse non mantenute dai poteri centrali nella lotta contro il degrado delle banlieue. Nella sua scia, altri primi cittadini di zone “calde” minacciano di non candidarsi più alle amministrative dell’anno prossimo. Troppi insulti e aggressioni, ripetono. A pochi chilometri da quell’Eliseo che sogna di pilotare una Francia divenuta nuovamente una «potenza d’equilibrio » internazionale del XXI secolo, i primi garanti politici della pace locale, i sindaci delle periferie difficili, si dicono spesso stremati. Dopo le agitazioni nei mesi scorsi dei gilet gialli delle aree rurali, il vecchio focolaio mai spento delle banlieue rischia di condizionare non poco la «fase due» del quinquennio del presidente Emmanuel Macron.
Daniele Zappalà - Avvenire
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