Alla riscoperta del baco da seta
«Con Nido di Seta, rivive l’antico fascino della seta calabrese».
La nascita della cooperativa Nido di Seta è saldamente legata alla scelta sentimentale di un gruppo di tre ragazzi calabresi – fuori per studio o per lavoro – di tornare a casa per riprendere per mano il proprio territorio e condurlo verso una direzione di virtuosa valorizzazione. Siamo a San Floro, borgo di cinquecento anime incastonato nel verde brillante delle provincia di Catanzaro. Qui, tentati dall’esistenza di un terreno comunale abbandonato a se stesso, sul quale sorgevano circa tremila piante di gelso, Giovanna Bagnato, Domenico Vivino e Miriam Pugliese hanno deciso di reintrodurre la millenaria tradizione della gelsibachicoltura. «Già negli anni Novanta, un gruppo di cui faceva parte mio padre aveva tentato di riavviare la tradizione», ci dice Domenico Vivino. «Mossi da quell’intenzione, nel 2014, abbiamo presentato al Comune di San Floro un progetto di riqualifica per ridare luce al prezioso lavoro del baco da seta».
La produzione della seta, nel tuo territorio, aveva radici profondissime.
«Sì. Catanzaro è stata fino al Settecento la capitale europea della seta. San Floro, invece, fino all’Ottocento, era uno dei poli della filiera che si occupava della prima fase, ovvero la coltivazione dei gelsi e l’allevamento dei bachi. Il bozzolo – il prodotto finito, realizzato dal baco – veniva poi portato nelle filande per essere trasformato prima in seta e successivamente in tessuti, tra i quali i damaschi, esportati in tutta Europa, specie nella corte reale francese».
Avete praticamente innovato senza stravolgere.
«Siamo rimasti fedelmente ancorati alla tradizione, è vero. Attraverso un lavoro di ricerca e studio, abbiamo reintrodotto tutte le tecniche di lavorazione: tessitura e tintura rigorosamente naturale, con prodotti del territorio».
Gestite anche un museo della seta.
«Sì, un luogo ricco di fascino. Il museo ospita dei damaschi antichi, dei paramenti sacri, le varie fasi ciclo del ciclo biologico del baco da seta, e una teca dedicata alle tecniche di tintura naturale. Abbiamo, inoltre, tentato di rendere il museo interattivo, installando alcuni telai con funzione dimostrativa, sui quali i visitatori possono fare un lancio di navetta. Stiamo allestendo anche una sezione dedicata alle sete del mondo, perché in questi anni abbiamo intrapreso diversi viaggi per confrontarci con le tecniche di tessitura nelle diverse culture».
Domenico, perché quest’arte era stata persa?
«Sono svariate le cause che hanno portato al declino della seta. C’è una sorta di diatriba fra i vari studiosi che cercano di spiegarlo. Si pensa alle tasse aumentate dai Borboni sul commercio, o al rastrellamento di alcune famiglie ebree che ne gestivano la produzione. Oltre alla malattia del baco che ha letteralmente decimato gli allevamenti, ha pesato molto la scelta dei cambi di coltura; a un certo punto, infatti, il gelso ha lasciato posto alle arance e agli ulivi».
Quanto è importante gestire una realtà che guarda al passato per conquistare il futuro?
«Tantissimo, e l’attenzione della stampa nazionale ci fa capire che stiamo andando nella giusta direzione. Questo ci inorgoglisce e ci gratifica, perché contribuisce alla crescita del nostro territorio. Nido di Seta ha istituto anche un’accademia dei saperi della seta, tramite dei corsi di bachicoltura e tintura naturale, affinché questo immenso sapere-artigiano possa continuare a esistere per non disperdersi più. Il nostro obiettivo primario è questo».
Domenico Marcella - twitter.com/dodoclock
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