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Francesco va’, ripara la mia casa....

Don Felice Accrocca
Pubblicato il 30-11--0001

Il contesto esistenziale e vocazionale del giovane Francesco al momento del colloquio con il Crocifisso

Per strano che possa sembrare, la conoscenza della vera forma della Croce di S. Damiano, una delle raffigurazioni del Crocifisso più famose del mondo, è scoperta recente. Fino a tutto il secolo XIX, infatti, quel crocifisso di cui molti parlavano e scrivevano era in realtà ignoto ai più. Tra il 1257 e il 1260 le compagne di Chiara si trasferirono sul luogo dove riposavano le spoglie mortali della loro Madre, nella basilica che stava costruendosi in onore della novella Santa (Chiara era stata infatti canonizzata nel 1255, ad Anagni, da Alessandro IV): nell’abbandonare S. Damiano, dove Chiara aveva vissuto per quarantadue anni, esso portarono con loro quel crocifisso davanti al quale avevano pregato per lunghi anni.

Di fatto, la croce deve essere stata difficilmente visibile, al punto che le sue raffigurazioni non risultano affatto conformi all’originale. In questi ultimi decenni, invece, la sosta silenziosa ed orante davanti a quel crocifisso è divenuta una tappa essenziale ed ineliminabile per la gran parte dei pellegrini che si recano in Assisi. Dedicherò le due relazioni di questa mattinata a due diversi argomenti, tra loro strettamente correlati. Analizzerò anzitutto la situazione delle fonti: quali di esse riportano il noto episodio del Crocifisso? Qual è il racconto originale? Quali mutazioni sisono introdotte nelle fonti, dalle più antiche alle più recenti? Cosa si può dire, in definitiva, su quell’esperienza. Nella seconda relazione, invece, cercheremo di capire quale fosse il contesto esistenziale di Francesco al tempo del suo colloquio con il Cristo in quella chiesetta fuori di Assisi. La situazione delle fonti Qualcosa di analogo dobbiamo registrare in riferimento alla narrazione del famoso episodio dell’ immagine del Crocifisso che parlò a Francesco nella chiesa di S. Damiano. Le fonti più antiche non ne parlano. Non vi accenna Tommaso da Celano nella Vita del beato Francesco (impropriamente conosciuta come Vita prima), portata a compimento dopo la canonizzazione di Francesco, tra il 1228 e il 1229. Non ne parlano neppure opere scritte negli anni Trenta del Duecento, dipendenti dalla Vita del Celanese, come la Leggenda versificata di san Francesco di Enrico d’ Avranches e la Vita di san Francesco di Giuliano da Spira. Prima della morte di Gregorio IX (1241) fu redatta l’opera Primordi o fondazione dell’ Ordine, molto probabilmente da quel fra Giovanni da Perugia che fu discepolo di frate Egidio: in più parti l’autore corregge oppure integra il racconto di Tommaso, ma non fa nessun accenno a quella straordinaria esperienza. Se ne parla per la prima volta nel testo che noi conosciamo come Leggenda dei tre compagni, i cui primi sedici capitoli risalgono agli anni 1244-1246 (3Comp 13: FF 1411); dopo di allora l’episodio viene regolarmente menzionato nelle fonti ufficiali, francescane ed anche clariane: compare infatti nel Memoriale nel desiderio dell’anima (impropriamente conosciuto come Vita seconda), redatto da Tommaso intorno al 1247 (2Cel 10: FF 593-594); nel Trattato dei miracoli, con cui, qualche anno dopo, il Celanese completò il Memoriale (3Cel 2: FF 826); nella Leggenda di santa Chiara vergine (dopo il 1255: LegsC 10: FF 3175); nella Leggenda maggiore e nella Leggenda minore di Bonaventura da Bagnoregio (1260-1263: LegM II, 1: FF 1038; Legm I, 5: FF 1334). Vi accenna anche Chiara nel suo Testamento (v. 10: FF 2826). C’è una spiegazione a tutto ciò? Il primo agiografo, nel suo primo lavoro, riuscì a reperire notizie lacunose su quegli anni della vita di Francesco che segnarono la sua conversione: ad una lettura attenta dei primi capitoli, la Vita suscita infatti diversi interrogativi.

Non si spiega per quale motivo, dopo aver fatto laboriosi e costosi preparativi, il giovane rinunci a partire per le Puglie (cf. 1Cel 4-6: FF 325-328); non si spiega per quale raptus egli parta e vada a Foligno, sottraendo panni dalla bottega del padre, senza avere peraltro un progetto preciso (cf. 1Cel 8-9: FF 332-335). Mi limito a questi questi pochi cenni, non potendo entrare ora in un’analisi più minuziosa. Bastino però a darci l’ idea della complessità dell’opera del Celanese: accanto alacune ed incongruenze, infatti, essa ci restituisce anche dei frammenti di un vissuto altrove irreperibili. L’autore dell’opera Primordi o fondazione dell’ Ordine, molto probabilmente quel frate Giovanni che i compagni di Francesco, nella lettera spedita da Greccio l’ 11 agosto 1246, dissero “compagno del venerabile padre frate Egidio” (3Comp 1: FF 1394), che scrisse prima della morte di Gregorio IX (1241), si mostra interessato non tanto alla storia di Francesco - a cui dedica, nel complesso, poca attenzione - quanto piuttosto a quella della primitiva fraternità e alla sua trasformazione in un Ordine numeroso, internazionale e stimato. L’opera non appartiene quindi al genere agiografico in senso stretto, ma può dirsi a metà tra questo e la cronaca. Della vita di Francesco egli prende in considerazione soltanto alcuni episodi, con l’ intento di correggere la cronologia oppure la descrizione dei fatti data dal Celano: egli chiarisce anzitutto che il famoso episodio dell’ incontro di Francesco con un mendicante nella bottega paterna non segue gli eventi della mancata spedizione militare e dei successivi contrasti con il padre, ma li precede, costituendo in qualche modo l’ inizio di un cambiamento interiore (cf. Anper 4: FF 1490). Dopo quel fatto, precisa l’autore, Francesco ebbe la famosa visione notturna, la quale precede dunque la decisione di partire per la Puglia: fu proprio interpretando la visione che Francesco decise di unirsi al seguito del conte Gentile (molto probabilmente Gentile di Palearia, conte di Manoppello), nella spedizione che questi stava preparando per le Puglie (cf. Anper 5: FF 1491; Tommaso aveva invece invertito la successione dei fatti). Il giovane in effetti partì, ma un nuova visione, a Spoleto, lo spinse a tornare indietro (cf. Anper 6: FF 1492).

Sulla via del ritorno, a Foligno vendette il cavallo e l’armatura; avviatosi poi verso Assisi entrò nella chiesa di S. Damiano. Qui egli avrebbe voluto affidare il denaro al prete che vi dimorava, un certo Pietro (il suo nome compare soltanto qui: si è in errore, quindi, quando si tenta di identificarlo con frate Silvestro), il quale “ricusò, non avendo dove riporre il denaro come gli era stato chiesto”; allora Francesco “gettò con disprezzo la borsa in una finestra di quella chiesa” (cf. Anper 7: FF 1493). In seguito, mosso da ispirazione divina (ductus Dei spiritu), cominciò a riparare la chiesa cadente; quindi, dopo il contrasto con il padre, risolto davanti al vescovo della città, tornò a S. Damiano con l’ intenzione di rimanervi (cf. Anper 7-8: FF 1493- 1495). Come si vede, l’autore dell’opera non intende descrivere con ordine quelle fasi cruciali della vita di Francesco, ma - come mostrò a suo tempo il Beguin - interviene soprattutto a correggere il dettato del Celanese in quei punti che a lui sembravano più bisognosi di correzione. Se non accenna all’episodio di S. Damiano, dunque, non per questo se ne può dedurre che egli non lo conoscesse né che - pur conoscendolo - non lo ritenesse degno di fede.

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