Francesco va’, ripara la mia casa....
Il contesto esistenziale e vocazionale del giovane Francesco al momento del colloquio con il Crocifisso
Per strano che possa sembrare, la conoscenza della vera forma della
Croce di S. Damiano, una delle raffigurazioni del Crocifisso più famose del
mondo, è scoperta recente. Fino a tutto il secolo XIX, infatti, quel crocifisso
di cui molti parlavano e scrivevano era in realtà ignoto ai più. Tra il 1257 e il
1260 le compagne di Chiara si trasferirono sul luogo dove riposavano le
spoglie mortali della loro Madre, nella basilica che stava costruendosi in
onore della novella Santa (Chiara era stata infatti canonizzata nel 1255,
ad Anagni, da Alessandro IV): nell’abbandonare S. Damiano, dove Chiara
aveva vissuto per quarantadue anni, esso portarono con loro quel
crocifisso davanti al quale avevano pregato per lunghi anni.
Di fatto, la
croce deve essere stata difficilmente visibile, al punto che le sue
raffigurazioni non risultano affatto conformi all’originale. In questi ultimi
decenni, invece, la sosta silenziosa ed orante davanti a quel crocifisso è
divenuta una tappa essenziale ed ineliminabile per la gran parte dei
pellegrini che si recano in Assisi. Dedicherò le due relazioni di questa
mattinata a due diversi argomenti, tra loro strettamente correlati.
Analizzerò anzitutto la situazione delle fonti: quali di esse riportano il noto
episodio del Crocifisso? Qual è il racconto originale? Quali mutazioni sisono introdotte nelle fonti, dalle più antiche alle più recenti? Cosa si può
dire, in definitiva, su quell’esperienza. Nella seconda relazione, invece,
cercheremo di capire quale fosse il contesto esistenziale di Francesco al
tempo del suo colloquio con il Cristo in quella chiesetta fuori di Assisi.
La situazione delle fonti
Qualcosa di analogo dobbiamo registrare in riferimento alla narrazione
del famoso episodio dell’ immagine del Crocifisso che parlò a Francesco
nella chiesa di S. Damiano. Le fonti più antiche non ne parlano. Non vi
accenna Tommaso da Celano nella Vita del beato Francesco
(impropriamente conosciuta come Vita prima), portata a compimento
dopo la canonizzazione di Francesco, tra il 1228 e il 1229. Non ne parlano
neppure opere scritte negli anni Trenta del Duecento, dipendenti dalla
Vita del Celanese, come la Leggenda versificata di san Francesco di
Enrico d’ Avranches e la Vita di san Francesco di Giuliano da Spira. Prima
della morte di Gregorio IX (1241) fu redatta l’opera Primordi o fondazione
dell’ Ordine, molto probabilmente da quel fra Giovanni da Perugia che fu
discepolo di frate Egidio: in più parti l’autore corregge oppure integra il
racconto di Tommaso, ma non fa nessun accenno a quella straordinaria
esperienza. Se ne parla per la prima volta nel testo che noi conosciamo
come Leggenda dei tre compagni, i cui primi sedici capitoli risalgono agli
anni 1244-1246 (3Comp 13: FF 1411); dopo di allora l’episodio viene
regolarmente menzionato nelle fonti ufficiali, francescane ed anche
clariane: compare infatti nel Memoriale nel desiderio dell’anima
(impropriamente conosciuto come Vita seconda), redatto da Tommaso
intorno al 1247 (2Cel 10: FF 593-594); nel Trattato dei miracoli, con cui,
qualche anno dopo, il Celanese completò il Memoriale (3Cel 2: FF 826);
nella Leggenda di santa Chiara vergine (dopo il 1255: LegsC 10: FF 3175);
nella Leggenda maggiore e nella Leggenda minore di Bonaventura da
Bagnoregio (1260-1263: LegM II, 1: FF 1038; Legm I, 5: FF 1334). Vi accenna
anche Chiara nel suo Testamento (v. 10: FF 2826). C’è una spiegazione a
tutto ciò? Il primo agiografo, nel suo primo lavoro, riuscì a reperire notizie
lacunose su quegli anni della vita di Francesco che segnarono la sua
conversione: ad una lettura attenta dei primi capitoli, la Vita suscita infatti
diversi interrogativi.
Non si spiega per quale motivo, dopo aver fatto
laboriosi e costosi preparativi, il giovane rinunci a partire per le Puglie (cf.
1Cel 4-6: FF 325-328); non si spiega per quale raptus egli parta e vada a
Foligno, sottraendo panni dalla bottega del padre, senza avere peraltro
un progetto preciso (cf. 1Cel 8-9: FF 332-335). Mi limito a questi questi
pochi cenni, non potendo entrare ora in un’analisi più minuziosa. Bastino
però a darci l’ idea della complessità dell’opera del Celanese: accanto alacune ed incongruenze, infatti, essa ci restituisce anche dei frammenti di
un vissuto altrove irreperibili.
L’autore dell’opera Primordi o fondazione dell’ Ordine, molto
probabilmente quel frate Giovanni che i compagni di Francesco, nella
lettera spedita da Greccio l’ 11 agosto 1246, dissero “compagno del
venerabile padre frate Egidio” (3Comp 1: FF 1394), che scrisse prima della
morte di Gregorio IX (1241), si mostra interessato non tanto alla storia di
Francesco - a cui dedica, nel complesso, poca attenzione - quanto
piuttosto a quella della primitiva fraternità e alla sua trasformazione in un
Ordine numeroso, internazionale e stimato. L’opera non appartiene quindi
al genere agiografico in senso stretto, ma può dirsi a metà tra questo e la
cronaca. Della vita di Francesco egli prende in considerazione soltanto
alcuni episodi, con l’ intento di correggere la cronologia oppure la
descrizione dei fatti data dal Celano: egli chiarisce anzitutto che il famoso
episodio dell’ incontro di Francesco con un mendicante nella bottega
paterna non segue gli eventi della mancata spedizione militare e dei
successivi contrasti con il padre, ma li precede, costituendo in qualche
modo l’ inizio di un cambiamento interiore (cf. Anper 4: FF 1490).
Dopo quel fatto, precisa l’autore, Francesco ebbe la famosa visione
notturna, la quale precede dunque la decisione di partire per la Puglia: fu
proprio interpretando la visione che Francesco decise di unirsi al seguito
del conte Gentile (molto probabilmente Gentile di Palearia, conte di
Manoppello), nella spedizione che questi stava preparando per le Puglie
(cf. Anper 5: FF 1491; Tommaso aveva invece invertito la successione dei
fatti). Il giovane in effetti partì, ma un nuova visione, a Spoleto, lo spinse a
tornare indietro (cf. Anper 6: FF 1492).
Sulla via del ritorno, a Foligno
vendette il cavallo e l’armatura; avviatosi poi verso Assisi entrò nella chiesa
di S. Damiano. Qui egli avrebbe voluto affidare il denaro al prete che vi
dimorava, un certo Pietro (il suo nome compare soltanto qui: si è in errore,
quindi, quando si tenta di identificarlo con frate Silvestro), il quale “ricusò,
non avendo dove riporre il denaro come gli era stato chiesto”; allora
Francesco “gettò con disprezzo la borsa in una finestra di quella chiesa”
(cf. Anper 7: FF 1493).
In seguito, mosso da ispirazione divina (ductus Dei spiritu), cominciò a
riparare la chiesa cadente; quindi, dopo il contrasto con il padre, risolto
davanti al vescovo della città, tornò a S. Damiano con l’ intenzione di
rimanervi (cf. Anper 7-8: FF 1493- 1495). Come si vede, l’autore dell’opera
non intende descrivere con ordine quelle fasi cruciali della vita di
Francesco, ma - come mostrò a suo tempo il Beguin - interviene
soprattutto a correggere il dettato del Celanese in quei punti che a lui
sembravano più bisognosi di correzione. Se non accenna all’episodio di S.
Damiano, dunque, non per questo se ne può dedurre che egli non lo
conoscesse né che - pur conoscendolo - non lo ritenesse degno di fede.
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