francescanesimo

Pizzaballa: Gerusalemme, dove tutto è nato

Antonio Tarallo Ansa - ABED AL HASHLAMOUN / POOL
Pubblicato il 01-02-2021

Visioni, storia e immagini dalla Terra Santa, intervista a Sua Beatitudine

1) Gerusalemme. Qui, tutto è nato. Luoghi e immagini. Parole ed eventi. Quale di tutte queste immagini Le è più cara?

Sicuramente l’immagine del Santo Sepolcro, che è al tempo stesso – per richiamare la domanda posta – luogo, immagine, parola ed evento. «Luogo» santo per eccellenza, perché scrigno della nostra fede, di ciò che più caro abbiamo come cristiani: la croce gloriosa di Cristo ovvero il mistero pasquale. «Immagine», perché esso è lo specchio di ciò che siamo: feriti dalle contraddizioni e dalle divisioni, ma anche amati da Gesù, la vera Icona del Padre, che può non solo curare, ma anche trasfigurare le nostre piaghe. «Parola», perché da qui è risuonato il primo kerygma pasquale, l’annuncio dell’angelo alle donne: «Non è qui. È risorto! (…) E vi precede in Galilea» (Mt 28,6-7). «Evento», perché la risurrezione di Cristo si attualizza ogni giorno nei Sacramenti e nella nostra storia concreta. 

Proprio nel Sepolcro, dove sono evidenti le ferite che abbiamo inferto sul corpo di Cristo che è la Chiesa, desideriamo mostrare il nostro desiderio di curarle e preghiamo perché si ricostituisca la veste di Cristo lacerata al momento della sua passione (cf. Gv 19,23) e così possiamo essere «una cosa sola» (Gv 17,11), secondo la sua volontà. La nostra Chiesa, quindi, non può rimanere ripiegata sulle sue ferite, ma ricordare che può rialzarsi ogni giorno con il suo Signore dalle cadute passate.

2) Il ruolo di Gerusalemme nel Cristianesimo, oggi. Quali prospettive? Quali visioni?

Mi sono chiesto, fin dal primo momento del mio insediamento, cosa significasse essere Chiesa a Gerusalemme e a quali visioni fossi chiamato come pastore. Qui a Gerusalemme tutti hanno la tentazione di vivere «nel loro piccolo mondo». Sento che non possiamo rinchiuderci nei nostri «cenacoli», né nelle nostre paure, ma al contrario siamo invitati a leggere la nostra realtà ecclesiale alla luce dell’incontro con Cristo risorto. Se, da un lato, siamo la Chiesa del Golgota, dall’altro non possiamo «vivere in lutto»: siamo anche la Chiesa della tomba vuota e della risurrezione! Desideriamo veramente essere, come la prima comunità apostolica, la Chiesa del Cenacolo, che in Cristo supera muri e porte chiuse, sempre più «estroversa», aperta all’altro, libera e piena di parresìa. 

Siamo un piccolo gregge – per questo è necessario camminare insieme e sostenerci a vicenda – ma siamo pur sempre la Chiesa madre: in Gerusalemme «tutti siamo nati» (cf. Sal 87,5). Il ruolo di Gerusalemme è quindi quello di un «cuore pulsante», che deve avere un continuo ritmo di «sistole e diastole»: tutte le genti guardano e accorrono a Gerusalemme (e ci auguriamo che i pellegrini tornino al più presto!), mentre noi, a nostra volta, dopo essere corsi al sepolcro vuoto, da Gerusalemme siamo chiamati a uscire, a lasciarci coinvolgere nel «dinamismo della Pasqua», a correre a evangelizzare il mondo con Cristo, come gli apostoli, smettendo di piangere su noi stessi. 

Riprendendo la sua domanda dunque – «quali prospettive, quali visioni?» –occorre dire che il coraggio vive di prospettive e di visioni, altrimenti è solo «prestazione muscolare» che si stanca presto. Visione: ecco quello di cui abbiamo bisogno. Saper vedere attraverso il dolore e la morte, le cose nuove che Dio crea e ricrea. In un contesto anche ecclesiale un po’ disorientato dai cambiamenti veloci e dalle crisi identitarie, Gerusalemme è il punto fermo dal quale non si può prescindere e dal quale ripartire: abbiamo bisogno di ritornare alle sorgenti della nostra identità e alla nostra essenza, di darci delle priorità, di rivedere con il coraggio della visione quanto facciamo e chiederci che cosa è essenziale e cosa no. Abbiamo bisogno di ripensare in forma radicale il nostro futuro, avendo tuttavia un riferimento antico e sempre nuovo: non opere che annunciano la nostra potenza, ma una fede che diventa dono di vita attraverso le nostre opere ecclesiali.

3) Il dialogo interreligioso è uno dei temi più importanti nel nostro oggi. Papa Francesco più volte, nel suo Magistero, si è concentrato su questo delicato tema. Pensa che sarà possibile prima o poi una vera e propria comunione fra tutte le religioni? Com’è possibile? E, soprattutto, oggi in un mondo di "distanze sociali", come riuscire in tutto questo? 

Non so se sarà mai possibile una vera e propria «comunione», che del resto è una parola specifica coniata dai cristiani, ma certamente lo sono una sincera fraternità e amicizia. Io ne ho fatto esperienza sin da quando sono arrivato a Gerusalemme più di trent’anni fa. La Città Santa mi è parsa subito un ambiente ostile, per tutte le sue tensioni, divisioni, rancori. Poco alla volta, tuttavia, sono anche nate relazioni feconde e amicizie meravigliose. La mia identità cristiana oggi si nutre anche di queste relazioni con amici ebrei e musulmani, senza i quali non potrei e non vorrei vivere a Gerusalemme. A me la Citta Santa ha insegnato l’incontro. Il dialogo interreligioso, quindi, è oggi più che mai necessario. I fondamentalismi avanzano in tutto il mondo e perciò le iniziative d’incontro, la conoscenza mutua e il superamento delle reciproche diffidenze sono indispensabili. Il dialogo tra credenti delle diverse fedi può avere anche una grande influenza sulla politica, soprattutto in Medio Oriente. 

Com’è possibile camminare come veri fratelli? In Terra Santa, da sempre ebrei, cristiani e musulmani vivono insieme. Il nostro stare insieme ha conosciuto momenti molto belli ma anche tante difficoltà, specialmente perché il nostro è un contesto in cui religione e politica si mischiano. Nel Medio Oriente abbiamo conosciuto le conseguenze di queste difficoltà, di questa storia che ci portiamo dietro. La sfida che abbiamo oggi in Medio Oriente è fare in modo che questo bagaglio non diventi l’ostacolo che ci impedisce di vivere questa convivenza in maniera positiva. Dobbiamo far sì che questo nostro stare insieme sia non subìto, ma vissuto positivamente. Bisogna soprattutto «calare» il dialogo interreligioso ufficiale nella vita del territorio, e questo richiede tempo e pazienza, fatica quotidiana e formazione, ma anche profeti e giusti che operino non solo nelle istituzioni, ma anche nelle scuole, negli ospedali, nei luoghi dove la gente vive. 

Il vero dialogo interreligioso, pertanto, è quello che parte dal reale: riconosce i problemi e le paure reciproche, ma non se ne lascia travolgere; ama la propria identità e tradizione, ma rifiuta ogni forma di violenza e imposizione per affermarle; può non condividere l’opinione dell’altro, ma non vuole convincerlo a tutti i costi; testimonia quanto crede, ma sempre con rispetto e amore. Non si tratta, quindi, di irenismo né di una tolleranza che appiattisce le differenze: non si devono mai negare le diverse identità religiose e culturali, giacché farlo è proprio degli integralismi. Al contrario, il dialogo interreligioso riconosce le differenze, che non considera minacce ma cerca di comprendere. Bisogna parlare e dialogare, creare iniziative comuni, intessere relazioni senza stancarsi né demordere. Lo chiede la gente, ma prima ancora, ce lo chiede il Vangelo.

Bisogna ovviamente riconoscere che il cammino per un rapporto pacifico tra le diverse anime religiose dell’Oriente, come anche tra Oriente e Occidente, resta ancora lungo. La testimonianza di Papa Francesco, in questo senso, è un punto di riferimento per tutti, giacché richiama continuamente credenti e non-credenti a non cedere alla tentazione dello scontro, ma a continuare a credere nel dialogo, nell’incontro e nella riconciliazione tra popoli, culture e religioni. 

Anche l’attuale pandemia, nonostante il «distanziamento sociale» cui ci ha costretto, può paradossalmente venirci in aiuto, giacché ci ha riportato alla nostra verità. Ci sentivamo potenti, quasi invincibili, e invece ci siamo ritrovati tutti, nessuno escluso, fragili. Pensavamo di essere artefici del nostro destino e invece non è così: abbiamo bisogno di Dio, abbiamo bisogno degli altri. Abbiamo visto quanto è drammatico morire da soli, quanto è insignificante vivere isolati. In questi giorni, infatti, siamo colpiti e feriti proprio in ciò che abbiamo di più caro: le nostre relazioni. Il Signore, tuttavia, ce le ha sottratte per un tempo, solo perché vuole restituircele purificate da quanto in esse vi è di violento o egoistico. Questa nuova situazione, infatti, ci richiama al cuore della nostra fede e ci invita ad alzare lo sguardo a Dio. 

In questo contesto, piace pensare all’episodio della lotta di Giacobbe. Questi, solo dopo aver «lottato con Dio» e vissuto un’esperienza «faccia a faccia con lui» – tanto che egli chiamerà il luogo di quell’incontro Penuel, cioè «volto di Dio» –, e solo dopo essere uscito da quella lotta zoppicando (cf. Gen 23,32-33) verso il fratello/nemico Esaù, potrà finalmente vedere nel volto di costui «il volto di Dio» (Gen 33,10) e quindi riabbracciarlo. O usciremo verso il fratello «zoppicando», cioè a partire dalle nostre debolezze e sofferenze (non a caso Papa Francesco parla spesso di «ecumenismo della sofferenza»), oppure non lo incontreremo mai.

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