Padre Enzo Fortunato: Quel che resta di Dio
Quello che il Figlio di Dio lascia a noi nudo sulla croce, e quel che Francesco lascia a noi nudo sulla terra.
La tunica e la tonaca. L’abito di Gesù, l’abito di Francesco. Il rosso e il marrone. E quello studio ritrovato, con una scoperta interessante rimasta inosservata per molti anni.
Cosa hanno in comune questi due abiti?
Mi sovviene il testo di un caro amico, Emilio Isgrò, “Quel che resta di Dio”. Un’affermazione che ci regala la sintesi di questi due “stracci”. Quello che il Figlio di Dio lascia a noi nudo sulla croce, e quel che Francesco lascia a noi nudo sulla terra. Il rosso che richiama la passione, l’amore per l’altro; il marrone della pochezza della terra, della fragilità dell’uomo. È un gioco di contrasti. Se volete il gioco serio di Dio e il gioco serio di Francesco. I due abiti che sulla copertina sono stati creati e donati dalla fantasia di uno degli artisti più noti, Mimmo Paladino, rappresentano quello che siamo chiamati ad essere e a vivere. Non due “stracci”, ma due uomini che quegli stracci hanno indossato e vissuto e ci fanno percepire la bellezza dell’amore, che ci ha donato e la dignità dell’uomo chiamato a rattoppare e ricucire.
Il primo è la tunica che, come ci ricorda l’evangelista Giovanni (Giovanni 19, 23), era tessuta tutta d’un pezzo, senza cuciture, da cima a fondo e tirata a sorte nel momento della morte. Insieme ci chiediamo che cosa significhi tutto questo.
Tessuta tutta d’un pezzo perché Gesù è interamente unito a suo Padre e a noi; non possiamo trovare quindi la nostra unità tra noi e in noi se non in Lui, Egli è, come scrive Anne Lécu, “il nome della nostra unità interiore, il nome del legame che ci unisce. Ed Egli non smette di pregare il Padre perché l’unità sia riconosciuta, ricevuta e donata.”
La tunica di Gesù era senza cuciture, se pensiamo ad Adamo ed Eva, a Giobbe, loro avevano foglie o stoffe intrecciate e cucite. La tunica invece non è concepibile strappata perché l’immagine e la somiglianza che ha impresso in noi non è strappabile, ma inossidabile e intaccabile. Senza cuciture è la metafora della misericordia di Dio che viene a ricoprire ciò che mascherava la nostra innocenza, essa restaura la nostra somiglianza originale con Dio. È la pelle del nostro essere più profondo. Pelle, scrive Lécu, “senza strappi o graffi malgrado tutte le disgrazie del mondo; anche se ingombrata di detriti. Essa ci rende la verità del nostro essere.”
Infine questa tunica è tessuta da cima a fondo, dall’alto ai piedi, è il Padre che ce la dona, segno che l’unità viene dall’alto, è dono di Dio. Si rinasce dall’alto, si nasce dall’alto, come Gesù disse a Nicodemo.
Infine essa è tirata a sorte, non appartiene a nessuno perché appartiene a tutti. Non fa parte del bottino attribuito ai soldati. Essa sostituisce la cintura intrecciata da Adamo, riveste Giacobbe, affinché la sua pelle ritrovi la salute di prima, essa viene a ricoprire tutte le Tamar violentate, i Noè denudati, i Giobbe ammalati, tutti i giovanetti che fuggono nudi, disperati per la cattura del loro Signore, della loro “sicurezza”. Viene a rivestire Pietro e ciascuno di noi affinché ci possiamo presentare degni e dignitosi davanti a Dio, davanti ad ogni uomo. Tirata a sorte durante la morte perché quella morte è la vittoria dell’amore e della misericordia. Inoltre questa tunica viene lasciata a noi dal Cristo nudo sulla croce, il momento che ci ricorda che tutto passa…
Se la tunica diventa la metafora dell’amore di Dio, la tonaca è la metafora della fragilità dell’uomo. Che cosa ci ricorda? Con trepidazione inoltrandomi in questa ricerca ho "scoperto" qualcosa di inimmaginabile, parcheggiato da molti anni, senza che nessuno ne sapesse niente, tra gli scaffali della biblioteca e negli annali della nostra rivista. Quelle pezze, quei rattoppi sulla tonaca di san Francesco, che ho contato, 31 in tutto, sono stati cuciti – come afferma Mechthild Flury-Lemberg, una delle più importanti studiose di tessuti antichi, grazie alla Fondazione Abegg di Berna - da Santa Chiara, con due ipotesi: la prima durante la vita stessa di San Francesco, la seconda dopo la sua morte, per conservare con devozione la tonaca del Santo.
Ma procediamo con ordine. Una sola tonaca: “In nessun caso [Francesco] ammetteva che i frati avessero più di due tonache (…).” (FF 1698). Francesco comprende che tanto vale l’uomo quanto vale dinanzi a Dio e nulla più, ad indicare la dignità e l’importanza dell’essere umano, il valore che questo ha davanti ai propri occhi. Un uomo che al di là di quello che è e fa, che sia ricco o povero, grande o piccolo, maschio o femmina, giovane o vecchio, retto o peccatore è importante agli occhi di Dio, come lo era il lebbroso, il sultano, il fratello ladrone: così Francesco chiama i peccatori scoperti in flagranza di reato.
Abbiamo contato 31 rattoppi della tonaca, di cui 19 sono quelli cuciti dal mantello di Santa Chiara. Anche qui un simbolismo forte. Indicano la lacerazione e il limite che ognuno porta con sé inevitabilmente, inesorabilmente. Gli strappi sono stati cuciti, o ricuciti, ed ecco la “scoperta” che non avrei immaginato, dal mantello di Santa Chiara che ci dice la devozione, la stima e l’affetto spirituale dell’uomo per l’altro, ma in questo caso di Chiara per Francesco. Solo l’amore può ricucire, permette di racconciare e ricominciare. Un amore che Felice Accrocca, uno tra i massimi esperti e studiosi di francescanesimo, definisce “libero e intenso”.
Che cosa tiene in vita una tonaca? Una persona? Se non la comprensione, la carità, la capacità di ricucire con l’altro, altrimenti siamo tutti chiamati ad essere gettati via perché non amati.
Il colore marrone e grigio del tessuto naturale della tonaca è l’immagine della terra. Non solo l’humus dove poggiamo i piedi; la terra a cui l’abito richiama è la capacità intrinseca che ha ogni persona di generare vita: è il compito di nostra madre terra, di ognuno di noi; forse comprendiamo anche perché la Laudato Si’ è innervata di francescanesimo.
Quando si ricompatta la nostra unità interiore? Quando nasce la fraternità? Quando vive la relazione con gli altri? Solo quando si è capaci di generare vita. La tunica e la tonaca, quel che resta di Dio, che siamo chiamati ad indossare, purché l’abito diventi pelle, prima che, come scrive Isgrò, “potrà essere tardi per me, potrà essere tardi per te ma non per la vita”.
Mi sono chiesto il senso di questa “scoperta” e riproposta. Mentre ne parlavo con il Cardinale Gualtiero Bassetti, con lo sguardo che si poggiava sulle ansie del mondo, mi dice: “E’ la condivisione della povertà”. Un’affermazione questa che potrebbe aiutare i tanti cuori induriti di chi grida “prima noi e poi gli altri”. Non posso che concludere con i versi di Alda Merini, che racconta la concretezza di questi “stracci”: Felice colui / che mi ha rivestito di un saio / che è diventato un pavimento di rose. / Non ho mai sentito / l’asperità di questo tessuto, / ma odorava di fresco, / odorava di mattino, / odorava di resurrezione. / Le mie spalle sono diventate deboli ma forti: / sono diventato un contadino di fede. / Aravo solo la terra di Dio, la sua volontà.
(testi di riferimento: Anne Anne Lécu, Hai coperto la mia vergogna, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2019; Emilio Isgrò, Quel che resta di Dio, Milano, Guanda, 2019; Mechthild Flury-Lemberg, La tonaca di San Francesco, in San Francesco Patrono d'Italia n.2 febbraio 1989 e Mechthild Flury-Lemberg, Textilkonservierung, Abegg-Stiftung Bern, Schriften der Abegg-Stiftung Bern, 1988)
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