Mons. Felice Accrocca: quel serpente tra le fiamme
L’incontro tra san Francesco e il sultano negli affreschi della basilica superiore di Assisi
Uno dei temi più intriganti per gli storici dell’arte è costituito senza dubbio dalle scene che, nella Basilica superiore di Assisi, ritraggono la vita di san Francesco d’Assisi: ventotto affreschi che videro protagonisti diversi pittori d’invidiabile talento, tra i quali spiccò, senz’ombra di dubbio, il genio di Giotto.
Una scena di quel ciclo francescano è incentrata sull’incontro di Francesco con il sultano, o meglio, sulla disputa che innanzi al sultano avrebbe dovuto tenersi e non si tenne: un episodio che — prima di Giotto — era stato figurativamente rappresentato solo nella tavola attribuita a Coppo di Marcovaldo, conservata a Firenze nella Cappella Bardi, all’interno della chiesa di Santa Croce.
La fonte agiografica su cui allora Coppo fondò la propria raffigurazione non poté però essere che la Vita beati Francisci di Tommaso da Celano, testo nel quale non viene fatta nessuna allusione alla proposta di Francesco — poi riferita da Bonaventura — di una prova del fuoco che avrebbe avuto lo scopo di mostrare ai contendenti la verità suprema, vale a dire Cristo come «il vero Dio e Signore, salvatore di tutti».
Non è mia intenzione discutere ora la realtà degli avvenimenti; è tuttavia vero che, alla luce delle testimonianze più antiche e degne di fede, il racconto di Bonaventura suscita non poche perplessità e certamente è necessario porre quanto meno in dubbio il fatto che Francesco avrebbe chiesto ai musulmani di voltare le spalle a Maometto o la reazione benevola del sultano, che molto probabilmente non sarebbe stata tale se davvero l’Assisiate si fosse comportato così come l’agiografo vorrebbe far credere.
In effetti, tanto Tommaso da Celano quanto Bonaventura collegano quella spedizione alla sete di martirio del santo, ragion per cui il Doctor seraphicus fu alla fine spinto a scrivere «un racconto del viaggio e del soggiorno in Egitto di cui non c’è traccia in nessun’altra biografia» Chiara Frugoni.
Certo è che la committenza — con una scelta senz’altro voluta — decise di concentrare l’attenzione non sulla predicazione di Francesco al sultano, quanto piuttosto sull’invito da lui rivolto ai “sacerdoti” di al-Malik al’Kamil, come mostra la didascalia sottostante la scena raffigurata nella Basilica superiore di Assisi. L’obiettivo era quindi di mostrare il coraggio di Francesco e la codardia dei “sacerdoti” saraceni.
Giotto e la sua scuola resero tutto ciò con grande efficacia, ponendo Francesco al centro della scena, tra il sultano e i suoi consiglieri da un lato e i suoi sacerdoti dall’altro: tra questi ultimi e il santo (che dietro le spalle ha il suo compagno, frate Illuminato) compare un fuoco che, stando al racconto di Bonaventura, in realtà non fu mai acceso.
A incrociarsi non sono gli sguardi di Francesco e di al-Malik al’Kamil, ma quelli del sultano e dei suoi sacerdoti: l’espressione di questi ultimi sembra tradire non tanto la paura del fuoco, quanto la vergogna per la pusillanimità mostrata in un momento tanto solenne di fronte al loro signore che, al pari di frate Illuminato, si volge a guardarli. Francesco, invece, fissa i suoi occhi sul sultano, mentre con la destra indica il fuoco che è alle sue spalle.
È proprio tra quelle fiamme, però, che bisogna concentrarsi, perché in mezzo a esse possiamo osservare un particolare che per tanti secoli è passato inosservato e sul quale è invece importante riflettere con attenzione. Le fiamme non sembrano infatti sprigionarsi da una catasta di legna, ma si avviluppano attorno alla sagoma di un serpente che, nel bruciare, si contorce.
Quindi, non un fuoco ordinario, ma un serpente che brucia: evocazione forse del «serpente antico, colui che chiamiamo diavolo e satana» (Apocalisse 12, 9) gettato nello stagno di fuoco (Apocalisse 20, 14-15)? A tale proposito, non va del resto dimenticato che le immagini utilizzate da Bonaventura nel Prologo della Legenda maior esaltano il ruolo profetico-escatologico di Francesco.
Tuttavia, un’altra pista appare possibile (e forse preferibile), soprattutto se teniamo conto che un’ulteriore opera di Bonaventura ha molto influito sull’impianto complessivo del programma iconografico della Basilica superiore di Assisi, vale a dire le Collationes in Hexaëmeron: com’è noto, tra il 9 aprile e il 28 maggio 1273, Bonaventura tenne a Parigi ventitré conferenze sulla falsariga dei primi capitoli della Genesi, appunto il racconto dei primi sei giorni della creazione, che ebbero un’eco vastissima.
Il grande teologo non riuscì a completare quel ciclo, né — tantomeno — a stendere il testo di quegli interventi per la pubblicazione; ce ne restano, in ogni caso, due diverse reportationes, vale a dire il resoconto di due diversi ascoltatori. Nei primi anni Settanta del XIII secolo, il dibattito sull’aristotelismo eterodosso, condannato nel 1270 dal vescovo di Parigi, Stefano Tempier, era vivissimo, e Sigieri di Brabante, il principale esponente dell’averroi-smo latino, era nel pieno della sua attività.
Più volte, nelle Collationes, Bonaventura riferisce l’errore dei sostenitori dell’eternità del mondo, senza lasciar dubbi sul fatto che proprio costoro fossero uno degli obiettivi principali (se non il principale) del suo argomentare: egli appare davvero preoccupato del successo mietuto dalla filosofia a scapito dello studio della Scrittura Sacra, al punto da farle guadagnare molti adepti anche tra i membri degli Ordini religiosi.
Nella Collatio XVIII Bonaventura illustra i frutti della Scrittura, mentre nella Collatio XIX mostra la via per poterli ricevere, compito nel quale riescono, dice, «solo coloro che pongono tutto il proprio impegno nel passare dalle vanità alla regione della verità». In modo inverso, «Adamo passò dalla verità alla vanità», tanto che «dopo che perse il legno della vita, si nascose».
Sembra qui di poter cogliere un’eco dell’insegnamento dato da Francesco nelle sue Ammonizioni. Adamo viene associato a Lucifero; questi, infatti, ancor prima di lui, compì l’identico transito, perciò «gli fu detto: “E invece sei stato precipitato negli inferi”. In primo luogo, egli fu scacciato per la colpa, in secondo luogo per il giudizio» (Collatio XIX, 1). Inoltre, per quanto utile sotto molti versi, l’ausilio di altri testi rispetto alla Scrittura Sacra può essere anche pericoloso: vi è infatti «un pericolo nel discendere agli originali (dei santi), poiché bello è il loro linguaggio, mentre la Scrittura non ne possiede uno altrettanto bello»; «maggiore tuttavia è il pericolo nel portarsi alle Summe dei maestri, poiché a volte in esse è presente l’errore, e mentre ritengono di comprendere gli originali (dei santi), in realtà non li comprendono, anzi li contraddicono».
«Il massimo pericolo, tuttavia, è di andare alla filosofia» (Collatio XIX, 10. 11. 12). In tale contesto Bonaventura ricorda ancora l’incontro del suo santo fondatore con al-Malik al’Kamil : «Nota — dice — cosa fece il beato Francesco, quando predicò al sultano. Questi gli chiese che disputasse con i suoi sacerdoti. E lui gli rispose che, a partire dalla ragione, non era possibile disputare sulla fede, perché la fede è al di sopra della ragione, né era possibile farlo a partire dalla Scrittura, in quanto essi non l’accettavano la Scrittura; pregava piuttosto che si facesse un fuoco ed egli vi sarebbe entrato con loro.
Dunque — ne conclude Bonaventura — non si deve mescolare tanta acqua della filosofia nel vino della Sacra Scrittura, così che da vino diventi acqua: sarebbe infatti un pessimo miracolo; leggiamo infatti che Cristo fece dell’acqua vino, non l’inverso. Da ciò ne segue che la fede non può essere provata ai credenti attraverso la ragione, ma attraverso la Scrittura e i miracoli.
Nella Chiesa primitiva, infatti, venivano bruciati i libri di filosofia: i pani, infatti, non devono essere mutati in pietre» (Collatio XIX, 14). Quindi, mentre nella Legenda maior l’agiografo afferma che Francesco predicò al sultano la fede nel Dio uno e trino con tanto ardore da suscitare l’ammirazione di al-Malik al’Ka - mil, nelle Collationes egli tende piuttosto a depotenziare il ruolo della ragione, che non consente di disputare sulla fede; nei primi anni Settanta del Duecento, il suo obiettivo erano soprattutto coloro che mescolavano troppa acqua della filosofia nel vino della Sacra Scrittura. Costoro, come Lucifero e come Adamo, rischiavano di passare «dalla verità alla vanità»; sarebbero stati perciò, come Lucifero, precipitati negli inferi.
Quel serpente che sedusse Adamo e gli strappò il legno della vita, Bonaventura lo vedeva incarnato allora nell’averroismo diffuso da Sigieri di Brabante anche tra i frati. Il rischio di una filosofia che finiva per essere soverchiante nei confronti della Scrittura Sacra, di una ragione staccata dalla fede, costituiva — agli occhi del grande teologo francescano — un’insidia mortale della quale molti sembravano non avvedersi e dalla quale bisognava perciò mettere in guardia, perché capace di trasportare nel profondo degli inferi.
Non mi pare dunque per nulla peregrino supporre che l’incontro di Francesco con il sultano sia stato illustrato dalla committenza agli artisti a partire non solo dalla Legenda maior, ma anche dalle Collationes in Hexaëmeron. Tutto ciò, Giotto seppe armonizzare in un quadro d’insieme: mostrando ancora una volta la forza multiforme del suo genio, riuscì — in obbedienza ai voleri della committenza — a lanciare un avvertimento di grande efficacia.
Il monito che Francesco sembra rivolgere al sultano, che in modo non troppo velato richiamava l’insegnamento di Averroè e della filosofia araba, era in realtà indirizzato a studenti e maestri francescani: questi, infatti, avrebbero dovuto respingere le insidie della filosofia, resistere alle sue tentazioni, evitando di preferire la vanità alla verità, per non ardere anch’essi nel fuoco eterno, come quel serpente che egli additava.
Quel che era, però, facilmente comprensibile ai più colti dei suoi contemporanei, non lo fu più con il passare dei secoli. Il serpente ha finito così per mimetizzarsi e scomparire e quel fuoco per essere scambiato con un comune falò. Eppure ben altro era il significato che teologo e pittore gli avevano assegnato.
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