Fratel Biagio, il missionario che si è spogliato di tutto come San Francesco
Biagio è un giovane inquieto della borghesia. Deluso e disgustato dal malaffare lascia tutto e abbraccia Francesco
Di San Francesco ha l’abito e il piglio: un saio, un panno in testa, un bastone compagno di lunghe pellegrinaggi. Non la statura, perché al piccolo fraticello di Assisi qui si contrappone un uomo ben più alto, barba lunga e occhi chiari di derivazione normanna. Che risaltano sulla pelle abbronzata e si uniscono al grande sorriso senza tramonti. Dice Biagio Conte, fratel Biagio, che tutto quello che ha fatto lo deve alla Provvidenza; e a conoscere la storia della sua Missione Speranza e Carità a Palermo, si intuisce che quest’uomo carismatico dialoghi con qualche entità sovrumana.
Incurante dell’etichetta di visionario che gli affibbiano quando lo vedono in cammino con una croce in spalla. Fede a parte, la Missione è la grande madre che accoglie 1.100 esseri umani fra senza tetto, immigrati, persone sole e con disabilità. I poveri tra i poveri, gli ultimi. Ma non si tratta solo di dar loro un rifugio e di sfamarli. Qui ognuno, secondo le proprie possibilità e abilità, contribuisce a tenere in piedi la grande famiglia. Ecco le attività agricole, i laboratori di molti mestieri. Dopo la Carità, la Speranza: la Speranza di un riscatto.
Palermo, anni ‘80. Biagio è un giovane inquieto della piccola borghesia. Stanco, deluso, forse disgustato dal malaffare, dal decadimento morale, dagli attentati di mafia che eliminano i difensori della legalità. Decide di lasciare tutto, mettersi in cammino da solo attraversando l’interno della Sicilia per poi risalire l’Appennino e giungere ad Assisi.
Come accadde al Santo, figlio di un ricco commerciante, in questo viaggio si liberò di tutte le sovrastrutture materiali in cui ci nascondiamo e riscoprì l’essenzialità delle cose, la semplicità, l’umiltà. «Davanti alla tomba del Santo - ha raccontato più volte - capii nel mio cuore di dover cominciare una vita da missionario. La mia intenzione era di andare in Africa o in India; e invece mi sentii riportare nella città dove non volevo più tornare. Gesù ha voluto che la missione nascesse proprio nelle strade di Palermo».
Nel 1991, il rientro a casa. Ma non nella casa dei genitori. Il figliol prodigo sceglie la stazione centrale, tra i vagoni e le sale d’aspetto. Qui vivono, nell’indifferenza più assoluta dei passanti, quelli che noi definiamo barboni o clochard e che Biagio Conte chiama fratelli. Drogati, uomini separati finiti sul lastrico, alcolizzati.
Poi, la sera, con la chiusura dei cancelli, tutti per strada, all’addiaccio. Biagio si accorge che nei pressi della stazione, in via Archirafi, c’è una grande struttura abbandonata. Era stata un disinfettatoio americano dopo lo sbarco, poi diventato comunale. Da un decennio chiuso e in rovina. Uno dei tanti ruderi di Palermo. Biagio chiede di poter entrare con i fratelli diseredati. Riceve un no secco.
Comincia un digiuno davanti ai cancelli. In silenzio, ma determinato. Due, quattro, otto giorni. Al dodicesimo ce la fa. I cancelli si aprono, i poveri entrano pur in un paesaggio di macerie, ricettacolo di droga e prostituzione. A continuare questo racconto è Riccardo Rossi, giornalista, uno delle decine di volontari a tempo pieno della missione, che da un anno ha cominciato, insieme con la moglie, un percorso da terziario. «Fratello Biagio viene da una famiglia di imprenditori edili e nel suo cammino ha incontrato fratello Giovanni, mastro muratore. È cominciato tutto così: col tempo si è riparato e ricostruito l’edificio, recuperato il giardino. Tanta gente vedeva e lasciava offerte. E così è stato per la missione femminile nell’ex convento di Santa Caterina e per la sfida più grande, la struttura di via Decollati, un’enorme caserma dell’aeronautica militare andata in malora. Il copione, sempre lo stesso: un no iniziale delle autorità a entrare in questi posti, il digiuno di Biagio, i cuori che si aprono, il grande lavoro per far rinascere luoghi perduti». Via Decollati, ottenuto in comodato d’uso, nasce agli inizi del millennio con l’emergenza sbarchi sulle coste siciliane.
Oggi la struttura ospita 800 persone quasi tutti migranti, a cui si aggiungono durante il giorno anche palermitani senza lavoro, altri con problemi giudiziari e con permesso di lavoro in alternativa al carcere. E dove, come nelle altre strutture, vi lavorano numerosi fratelli recuperati che da aiutati ora aiutano chi soffre.
Qui è cresciuta una serie di laboratori, dalla falegnameria all’idraulica, dal ferro all’elettricità, dal tessile alla tipografia (Rossi cura un bimestrale della Missione tirato in novemila copie). Ci sono persino due studi odontoiatrici, i denti sono il grande problema di chi arriva senza niente. Un gruppo di esodati che ha perduto il lavoro a pochi anni dalla pensione si mette a disposizione per guidare i giovani stranieri.
Così è stata costruita anche la chiesa della missione. Un giovane africano ha dimostrato le sue qualità di scultore realizzando dei bassorilievi in legno con le tappe della Via Crucis, un pittore musulmano ha realizzato 8 dipinti di grandi dimensioni.
Ogni giorno c’è da sfamare un popolo che chiede aiuto. La Missione Speranza e Carità ha anche le sue realtà agricole che provvedono al cibo per tutti. Gli ortaggi a villa Florio (data in comodato d’uso dall’Arcidiocesi di Palermo), l’olio a Scopello (una fattoria, recente donazione di un privato); a Tagliavia, nei pressi di Corleone, si allevano capre e mucche e si coltivano i grani antichi.
«Sforniamo 220 chili di pane al giorno fatto con il lievito madre. Credetemi, è il pane più buono d Palermo. Al di là degli ospiti, aiutiamo centinaia di famiglie in difficoltà, qui ricevono la spesa e in casi più gravi anche un piccolo contributo per l’affitto». Ma i soldi circolano il meno possibile, sono già il rompicapo di padre Pino, l’unico sacerdote presente in Missione, che ha lasciato i confortevoli conventi salesiani e si è preso l’onere di gestire l’amministrazione. «Non abbiamo nessuna facilitazione per le utenze - riprende Rossi -. Ma anche quando produciamo più di quanto ci serve, preferiamo fare dei baratti con altro cibo».
È così che cresce giorno dopo giorno questo avamposto di umanità. Che papa Francesco ha suggellato fermandosi alla Missione durante la sua visita a Palermo lo scorso settembre. «Si è lanciato nelle braccia di fratel Biagio, per lui è un vero missionario; ha pranzato con tutti i poveri del mondo, 40 alla sua mensa, altri 100 nella sala, 1200 in tutta la Cittadella del Povero e della Speranza: pollo, cous cous, caponatina, formaggi, olive. Nessun discorso, solo abbracci e ascolto delle storie di tutti. E ha visitato la nostra chiesa».
È stata la svolta di visibilità in una Palermo in cui molti hanno aiutato la Missione, ma dove la maggioranza non ne conosce lo sviluppo e la forza rigeneratrice. Mentre il suo esercito della bontà è in azione, Fratel Biagio non si ferma.
In questi mesi è impegnato in un pellegrinaggio che l’ha già portato in Francia, a Santiago di Compostela e in Portogallo. E ora nei pressi di Madrid. Chiede sempre un’accoglienza gratuita, molte volte gliela negano e lui dorme fuori, come avveniva 30 anni fa alla stazione di Palermo.
A Fatima le suore gli hanno curato le piaghe ai piedi. Ora è in Spagna da dove intende sbarcare in Marocco. «Vuole creare un ponte col mondo islamico», spiega Rossi. L’aveva già fatto San Francesco col sultano d’Egitto al seguito della V crociata: il dialogo contro ogni evidenza, di odio e sopraffazione.
Alessandro Cannavò - Corriere.it
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