Con-tatto accogliente e reciproco
L’ospitalità, secondo Paul Ricoeur
Nell’ultimo numero della nostra Rubrica ci siamo soffermati sull’accoglienza, intesa come il dono più prezioso che si possa fare e ricevere: noi siamo perché fondamentalmente ‘accolti’ e, in quanto accogliamo, facciamo vivere.
Ci soffermavamo quindi sulle tre declinazioni fondamentali dell’accoglienza, che sono il dono, l’ascolto e il dialogo: tutti e tre hanno come logica e dinamica l’orizzonte della reciprocità.
Accogliere è creare e donare uno spazio all’alterità dentro se stessi; anche se l’alterità, per definizione, disturba e scombussola. Ora, mentre riflettiamo su questo stile ospitale-accogliente connaturale all’humanum, siamo catapultati nel mysterium iniquitatis della folle guerra scatenata da Putin in Ucraina.
Nei reportages i nostri schermi mostrano immagini di sofferenza, di morte e distruzione. Case, palazzi, scuole e ospedali distrutti, famiglie lacerate e divise, uomini, donne, bambini e anziani massacrati: è la realtà della guerra che contrasta e sembra rendere evanescente e ininfluente quell’ideale di accoglienza fraterna che cerchiamo di approfondire da oltre un anno. La guerra, perché? Senz’altro la fede acritica della modernità nel progresso si è già infranta con i conflitti mondiali del secolo scorso e con quelli dei primi decenni del nuovo millennio. Non basta un progresso tecnico-scientifico, se non è accompagnato da un progresso morale e spirituale, da una vera accoglienza - cifra dell’humanum - che ci fa riconoscere a vicenda come fratelli e sorelle e vivere di conseguenza.
Risulta molto acuto e pertinente, oggi più ancora di quando venne formulato, quanto affermava Benedetto XVI nella sua ultima enciclica: «…Il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si rende evidente l'ambiguità del progresso.
Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell'uomo, nella crescita dell'uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l'uomo e per il mondo» (Spe salvi, 22).
Si potrebbe dire che la pace, tanto invocata in questo periodo, è uno stile accogliente che sorge dal cuore convertito al fratello o alla sorella nella reciprocità. Occorre tenerezza per accogliere: per ascoltare con il cuore e così poter liberare l’amore che sboccia nel cuore dell’altro. L’accoglienza è l’habitat della reciprocità, scuola di comunione fraterna e quindi di pace.
Questa logica dell’accoglienza stride con quella che sentiamo echeggiare intorno a noi, con parole o senza: variazioni sul tema “prima noi e poi gli altri”. “Prima i russi e poi gli ucraini”, dimenticando che sono entrambi popoli russi e, nella maggior parte, cristiani ortodossi. “Prima noi” e poi, eventualmente, se proprio ci avanza, possiamo dare qualcosa a chi ne ha bisogno, all’estraneo che forse percepiamo come attentatore al nostro benessere economico, ai valori civili e religiosi della nostra comunità sociale e alle nostre tradizioni.
Ed è ancora più triste sentire questi discorsi da parte di alcuni che si dicono cristiani, e dovrebbero seguire lo stile accogliente di Gesù che si identifica con gli ultimi della società, con lo straniero («Ero straniero e mi avete accolto», Mt 25,35.43), e proclama benedetti quanti lo avranno accolto lo straniero (“Venite benedetti del Padre mio”¸ Mt 25,34), ed è tremendamente severo fino a maledire coloro che non sono accoglienti (“Via, lontano da me, maledetti…, perché ero straniero e non mi avete accolto”, Mt 25,41.43).
Francesco d’Assisi ha testimoniato in tutta la sua vita uno stile di pace, con l’accoglienza e l’amore fraterno; uno stile che si fa vita incentrata sulla reciprocità accogliente. Il peccato più orribile della guerra non attinge forza nel non riconoscersi fatti per la reciprocità, per la comunione? Non è nella reciprocità che risiede il comandamento nuovo di “amarci gli uni gli altri” come Gesù ci ha amato?
Le nostre comunità vengono rese credibili dallo spessore della reciprocità ad intra e ad extra. Occorre una conversione al Dio dell’accoglienza per imparare ad essere accoglienti. «… Lui è il Dio della vicinanza, della compassione, della tenerezza, e non cerca perfezionismo: cerca accoglienza. Anche a te dice: “Fammi salire sulla barca della tua vita”. - “Ma, Signore, guarda…” - “Così, fammi salire, così com’è”» (papa Francesco, Angelus del 6 febbraio 2022).
La capacità illimitata di apertura e di accoglienza è la misura ‘alta’ della persona e, di conseguenza, è il principio informatore e strutturante di una società. L’ospitalità, secondo Paul Ricoeur, è un’esperienza di riconoscimento reciproco. La reciprocità va sviluppata nella Chiesa e nella società attraverso comportamenti e luoghi di accoglienza.
Quello dell’accoglienza dei migranti è un tema cruciale della nostra epoca, e il flusso dei migranti sembra ridiventato inarrestabile in seguito alla guerra in Ucraina. Mentre scriviamo, a due settimane dall’invasione russa all’Ucraina, già si contano due milioni e duecentomila persone in fuga dalla guerra; gli osservatori dell’UE prevedono in breve tempo l’arrivo di circa sette milioni di profughi.
Per la prima accoglienza e l’inserimento di queste persone (anche nella scuola e nel lavoro), ogni paese cerca di attivarsi grazie a una “piattaforma di solidarietà”. Gli ultimi avvenimenti faranno riflettere di più e in maniera diversa sull’accoglienza; non ci può essere accoglienza senza un reale coinvolgimento reciproco. È anche vero che in molti ambiti si tende soprattutto all’autoconservazione, che di fatto impedisce il coinvolgimento con gli altri. Le realtà più riluttanti al coinvolgimento sono quelle che faticano ad abbandonare strutture irrigidite e, temendo le novità, impongono una conformazione che si fa conformismo. Mostrano difficoltà ad ascoltare, ad andare incontro all’altro per presentarsi e permettere all’altro di fare lo stesso; a lasciarsi cambiare dall’incontro, a crescere nell’amore.
Per esplicitare questi limiti prendiamo ad esempio quelle realtà ecclesiali che, seppur consapevoli del bisogno di ripensare il modo di trasmettere il Vangelo attraverso l’accoglienza, restano ancorate a un modello di Ecclesia docens che con atteggiamenti paternalistici insegna agli altri “come vivere”, senza considerare i destinatari dell’annuncio e quindi senza coinvolgersi e senza poter coinvolgere. Per difficoltà a comprendere, e a volte per pigrizia e per comodità, avviene spesso che nelle nostre comunità cristiane non siano ascoltate le novità del mondo contemporaneo, le realtà affettive - sempre più fluide, a volte superficiali, ma non per questo da sottovalutare ed emarginare -; o che si abbia paura di confrontarsi apertamente e in modo approfondito all’interno delle proprie comunità, per uno strano pudore nel rendere manifesti i limiti umani.
Si può ‘accogliere’, senza ascoltare sé stessi o gli altri? Ci si può accogliere, in una comunità in cui non ci si ascolta reciprocamente? L’accoglienza è possibile o è solo utopia?
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