Abbassati al cospetto di Dio
Nell’Antico Testamento i poveri sono anawîm, 'chi è curvo'
Nella vita del beato Francesco compare l’espressione “altissima povertà” accostata a “santa vita”. Entrambe sono riferite ad alcune “ancelle di Cristo” che Francesco incontra a Spoleto. La povertà qui coincide con un allontanamento dal mondano: le ancelle, dicono le Fonti, sono “sepolte per il mondo”.
Questa particolare povertà, che commuove Francesco, riguarda insomma un allontanamento e un abbassamento; è il farsi “pusilli” di creature che hanno sottomesso il proprio io, rifiutando che il mondo lo riflettesse e lo amplificasse. La povertà non è in questo caso una categoria socio-economica, ma riguarda la sfera pneumatica: in questione non è come l’io si rapporti alla società, ma come si rapporta al divino.
Povertà in ebraico è anì e ha le stesse consonanti di io (ani). E sono collegate ad Anoki che è l’io supremo. In un midrash talmudico si dice che la differenza fra ani (l’io) e Anokì (l’io supremo) è una kaf. “È a causa della kaf della scrittura se l’io assoluto di Dio (Anoki) non può capovolgersi, come accade per l’io dell’esistenza dell’uomo (ani), nel niente Ayn”. Anì (la povertà) e ani (l’io dell’uomo) sono connesse al senso dell’io divino Anoki; ed entrambe hanno un rapporto con il nulla (Ayn). L’io è quel nulla – quella povertà essenziale – che trova salvezza nel divino.
La tradizione francescana afferma qualcosa di simile: la povertà coincide con la spoliazione dell’io che permette alla grazia di operare (la spoliazione senza grazia, invece, non è che il nulla di un gesto eclatante). Il riferimento costante nel discorso sulla povertà ha dunque esclusivo fondamento nell’intervento di Dio: la Kaf del midrash che riconduce al divino, la “grazia singolarissima del Padre Santo” delle Fonti.
Nell’Antico Testamento i poveri sono anawîm, che letteralmente significa “chi è curvo”, ovvero chi si è abbassato al cospetto di Dio. Lo stesso accade nei Vangeli: non c’è alcuna apologia della povertà materiale, i “poveri in spirito” (Mt 5,3) sono quelli che hanno riconosciuto che la salvezza implica un abbandono alla grazia, possibile quando si è rinunciato all’io mondano.
La povertà così intesa implica una forma di vita che, secondo Giorgio Agamben, è la radice ultima del francescanesimo. “È significativo che Olivi”, padre dei francescani spirituali, “in polemica con l’opinione di Tommaso, secondo cui la povertà è solo uno dei modi di raggiungere la perfezione e non la perfezione stessa, possa invece affermare che essa coincide essenzialmente e integralmente con la perfezione evangelica” (Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, p. 117). Perfezione che si pone al di là della presa del mondano e del suo sigillo essenziale: al di fuori del diritto. “Il francescanesimo può essere definito – e in questo consiste la sua novità, ancor oggi impensata e, nelle condizioni presenti della società, del tutto impensabile – come il tentativo di realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto” (p. 137).
Agamben ricorda il passo capitale delle Admonitiones dove Francesco identifica “il peccato originale con l’appropriazione della volontà” (p. 171). E perché ci sia appropriazione e volontà deve esserci un principio di individuazione che le sostenga, deve cioè esserci l’io. Ma il francescanesimo “è il rifiuto della stessa idea di una volontà propria” (p. 171). E se l’“altissima povertà” debella la “volontà propria” e dunque l’autorità dell’io, allora viene meno anche l’ordinamento che, attraverso l’io, il mondano si è dato: viene meno il diritto.
Insomma, se il diritto (associato ai segni che lo definiscono – il corpus delle leggi – e ad un comando che lo rende efficace) è ciò “su cui si fondano i poteri che regolano e reggono la società umana” (p. 168), la Regola francescana, attraverso l’“altissima povertà”, indicherebbe una via al di fuori della sfera d’influenza del diritto. L’“altissima povertà” traguarderebbe, escatologicamente, ciò che Francesco chiama la “terra dei viventi” assolta dall’io e dalle sue proiezioni mondane edificate sull’io e sulla volontà: “Questa è, fratelli miei carissimi, l’eccellenza dell’altissima povertà, che vi costituisce eredi e re del regno dei cieli, facendovi poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra porzione che vi conduce alla terra dei viventi” (Regola Bollata del 1223). (Rivista San Francesco - clicca qui per scoprire come abbonarti)
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