Suor Maria Trigila, prima religiosa giornalista
Questa apertura mentale è frutto di uno sguardo lungo che mi permette di fotografare la realtà con senso critico e spirito di appartenenza alla terra che visito
Maria Trigila è stata la prima religiosa ad aver conseguito in Italia il tesserino di giornalista professionista. Nata a Caltagirone, città nota per aver dato i natali a Don Luigi Sturzo, suor Maria si è laureata in Lettere moderne all’Università di Catania per poi specializzarsi in Comunicazione sociale e Teologia. La sua più grande passione è sempre stata quella per il racconto schietto e obiettivo di quella realtà che spesso fatichiamo a cogliere e a vedere. Già Responsabile mondiale dell'ufficio stampa dell'Istituto Maria Ausiliatrice, e docente di giornalismo presso l'Università Salesiana Auxilum di Roma, da qualche anno suor Maria collabora in maniera attiva con la Comunità di Sant’Egidio della città etnea.
Suor Maria, il vero vulcano di Sicilia è lei.
«No. Il vero vulcano è la creatività del buon Dio che ci stravolge la vita in ogni minuto, spronandoci a una lettura credibile del quotidiano. Il motore di questa mia vivacità è la fede. Senza di essa, mi creda, la mia vita interiore sarebbe stata una stanza vuota».
Ha fatto voto di povertà. Pur non potendo percepire alcun compenso necessario per l’iscrizione al registro dei praticanti, è riuscita a essere ammessa a sostenere gli esami di giornalista professionista per meriti eccezionali. Ci spiega com’è andata?
«Devo dire grazie alle persone che hanno creduto in me formandomi professionalmente: da Alceste Santini a Franco Pisano, da Luigi Ronsisvalle a Salvatore Izzo. Alcuni di questi sono stati i miei tutor nella scrittura giornalistica e mi hanno preparato a sostenere l’Esame di Stato per giornalista professionista. Devo dire grazie a Mario Agnes che pubblicava i miei pezzi su L’Osservatore Romano, a tanti direttori di giornali e riviste come Testimoni, Avvenire, Sir, Nova et Vetera e tanti altri. Sono cresciuta così nel confronto, imparando l’arte e i trucchi del mestiere. Un buon trampolino di lancio è stato l’accredito alla sala stampa della Santa Sede, tramite un mio amico, Mons. Gaetano Zito, che conosceva il vice direttore. Questo è stato un ottimo tirocinio. Mi trovavo a Roma, ero responsabile dell’Ufficio stampa mondiale delle suore salesiane, ero già giornalista pubblicista, e per ricoprire con competenza questo nuovo servizio mi suggerirono di continuare gli studi di comunicazione e giornalismo. Così, la superiora generale del tempo, Madre Marinella Castagno, condivise questa scelta, continuata anche dalla superiora generale successiva, madre Antonia Colombo. Durante il governo di Madre Antonia, sostenni l’Esame di Stato. Ricordo che al mio rientro in comunità trovai un biglietto di congratulazioni con un elegante servizio da scrivania. Affrontare l’esame non è stato una passeggiata. Entrai allora in dialogo professionale con maestri del giornalismo come don Giuseppe Costa e Angelo Paoluzi. Mi confrontai con la scrittura di menti eccelse come quella di Tiziano Terzani e del giornalista radiofonico Edward Murrow. La sera prima dell’esame avevo le idee chiare, ma anche una buona porzione di timore. Poi dissi al buon Dio: "Tutto questo mi serve per mediare la buona notizia, se non sei d’accordo fammi bocciare". Ma non fu così».
Ed è diventata così la prima religiosa-giornalista in Italia. Il velo, quindi, non inibisce le ambizioni.
«Non penso si tratti di ambizione, ma di gusto. Frequentare la sala stampa, far parte dello staff della comunicazione dei Sinodi, mediare l’informazione dei congressi fino al Social Forum svoltosi in Brasile sono state tutte occasioni di crescita culturale e umana. Mi hanno abilitata al confronto schietto. Sono stata aiutata molto dai viaggi, va detto. Questa apertura mentale è frutto di uno sguardo lungo che mi permette di fotografare la realtà con senso critico e spirito di appartenenza alla terra che visito. Ho scoperto così l’emozione e l’interiorità delle parole, e il fascino del carisma salesiano».
Ha consacrato la sua vita a Dio in maniera diversa rispetto ai crismi del passato.
«Sono salesiana, figlia di Don Bosco, il santo dei giovani. Vivo un carisma dinamico che non sa di muffa. Cerco con semplicità di guardare gli altri negli occhi per coglierne l’umore e portarlo dentro il mio cuore nella preghiera».
Determinata, emancipata, un po’ rivoluzionaria come soltanto le isolane con la loro tempra sanno essere. Nessun istinto femminista, vero?
«Femminismo? Ma cos’è il femminismo? Piuttosto femminilità perché vivo il carisma salesiano proprio con femminilità. Lo stile salesiano fa parte del mio DNA, e ho sempre vivo nel cuore l’esempio di Santa Maria Domenica Mazzarello che, insieme a Don Bosco, mi ha consegnato un modo di essere, tra cui la capacità di leggere tra le righe il non detto dei giovani e del prossimo per contestualizzarlo, senza pregiudizi e giudizi, ricercando soltanto il bene».
Non a caso ha scelto un Ordine come quello delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che si nutre della linfa energica dei giovani per stare al passo con l’evoluzione dei tempi.
«Per stare al passo coi tempi, dice bene. Ma prima ancora bisogna discernere i segni dei tempi, come diceva Papa Giovanni XXIII. Questo richiede flessibilità, coerenza, onestà intellettuale e preghiera. Tutti elementi con cui allenarsi nella palestra del quotidiano per tenere il passo di Dio».
Oggi coordina la scuola di italiano per i rifugiati e gli immigrati istituita a Catania dalla Comunità di Sant’Egidio. Com’è nata questa esperienza?
«Gli immigrati sono il tassello che mancava alla mia vita, me ne accorgo quando guardo i loro grandi occhioni neri, mesti, velati di sofferenza e a tratti illuminati da un leggero lampo di luce. È un’esperienza che ha messo un punto in più alla mia vita di consacrazione. La Comunità di Sant’Egidio di Catania mi ha fortemente voluta per dare il mio contributo alla Scuola di Cultura e Lingua italiana. Così, come al mio solito, mi sono tuffata in questo straordinario contatto umano in cui riesco a cogliere maggiormente l’animo di San Giovanni Bosco, comprendendo meglio le sue notti insonni per trovare soluzioni educative per i suoi giovani di Valdocco. Coordino, attualmente, un team di dodici docenti volontari, e insieme al responsabile della Comunità di Catania, Walter Cerreti, dedichiamo tempo e passione alla crescita culturale di questi giovani immigrati».
La comunicazione in Italia nei confronti dei rifugiati – dagli anni Novanta, periodo dei primissimi sbarchi, a oggi – è notevolmente cambiata.
«La cronaca esamina fino all’inverosimile la fascia di immigrati dai 18 ai 30 anni, che affronta grandi difficoltà di inserimento nel territorio, nella scuola e nel lavoro. A caratteri cubitali fanno rumore e notizia soltanto i fatti di violenza. La mancata conoscenza delle cosiddette diversità amplifica la difficoltà di inserimento e l’avvio di un percorso di marginalità sociale, generando spesso fenomeni di microcriminalità. Questo è un nodo da esaminare nei tavoli di concertazione».
La sua parola d’ordine è inclusione. Sulla pelle di chi sbarca in condizioni disperate si è costruita buona parte di questa campagna elettorale ormai agli sgoccioli.
«Credo che l’inclusione dovrebbe diventare la parola d’ordine dei partiti politici. Inclusione, come dice Papa Francesco, è espressione di misericordia, di accoglienza, e promuove un’educazione interculturale. Avere la coscienza di appartenere a una società di inclusione è fondamentale per cogliere alcuni criteri di fondo, per tradurre l’inclusione in valore per gestire un cambio di mentalità incisivo sui comportamenti. In tal modo l’inclusione diventerebbe l’orizzonte e il metodo trasversale d’insegnamento. Purtroppo, siamo ancora lontani da questa visione. La scuola dovrebbe aiutare la politica del bene comune a progettare itinerari modulari di cultura in cui ci si confronta e si agisce insieme».
Sfatiamo qualche frase a effetto: «Gli stranieri sono trattati meglio degli italiani». E ancora «Prima gli italiani».
«Le frasi ad effetto passano così come passa la moda. Non si tratta di un prima e di un dopo. Ma di definizioni di stili educativi. Cioè di saper “educere” e tirar fuori, sia dall’italiano che dall’immigrato, le potenzialità della persona. Un immigrato, come un italiano che non accetta di definire il suo modo di essere nel tempo e nello spazio, non rientra nella definizione di stile. Bisogna allora ragionare sugli “sporadici”. Ma non tutti gli italiani lo sono, così come non tutti gli immigrati lo sono. È necessario educare alla tolleranza (nel suo significato latino: di prendersi cura) nei confronti delle proprie frustrazioni, della propria sofferenza, del proprio disagio e imparare ad avere rispetto per le potenzialità della persona. Ecco, le frasi a effetto vanno sfatate partendo proprio da uno stile educativo inclusivo».
In cosa sbagliano i media e i nuovi media?
«Penso che manchi l’umanità nell’informazione nei confronti degli immigrati. Perché riteniamo l’immigrato uno strumento e non una risorsa. L’immigrato è visto con disprezzo, come uno che viene a toglierci il lavoro. Dovremmo invece aiutarlo a farlo crescere, a migliorare le proprie competenze, per permettergli di rientrare nella sua terra con una marcia in più».
Le comunità come la Sant’Egidio tutelano l’integrità e la dignità dei migranti, e non solo.
«Considero la missione della Comunità di Sant’Egidio una sorta di “patto educativo” con l’umanità ferita. Con semplicità, la Sant'Egidio accompagna il cammino di speranza delle persone in difficoltà: dai senza tetto ai rifugiati politici, dai poveri della città ai nuovi poveri dei quartieri. È una realtà viva sul territorio ché fa da tramite con Enti e Agenzie, e conosce molto bene la funzione del verbo Essere».
Lei insegna italiano agli immigrati.
«Sì, ma sono spesso io a imparare da loro il valore dell’umiltà, l’importanza del dialogo e della partecipazione. Tutto questo emerge dai percorsi didattici individualizzati che seguiamo presso lo sportello di inclusione educativa “InForma”, reso possibile grazie al Rettore della Chiesa di San Nicola l'Arena, Mons. Gaetano Zito, che ci ha messo a disposizione un ambiente funzionale della Rettoria . Nell’attività di scolarizzazione si instaura un rapporto diretto. Questo dà fiducia e aiuta l’immigrato a condividere la propria esperienza in forma di dialogo per rivederla da diverse prospettive. Si crea così un ambiente partecipativo. Questa è per me l’esperienza più bella in cui comprendo quanto Don Bosco diceva: “Pur di salvare un giovane striscerei con la lingua da Torino a Superga”, e anche per me è così».
Qual è l’emozione più grande?
«La loro voglia di vivere, di apprendere e di imparare, soprattutto un mestiere. Vogliono davvero rendersi utili».
Azzardiamo un po’. Se a un certo punto Maria Trigila diventasse per un giorno la prima religiosa alla Presidenza del Consiglio, cosa farebbe per rendere l’Italia un Paese più inclusivo?
«Non potrei mai esserlo per scelta e per diritto canonico, si sa. Per cambiare le cose non basta soltanto occupare una poltrona alla Camera o al Senato. Ci vuole volontà. Mi piacerebbe però ridefinire i trattati della cooperazione internazionale per testimoniare i valori che danno il significato alla solidarietà. E poi lavorare, investire molto sulla prevenzione, sulla sinergia e sull’accompagnamento. Allora sì che cambierà davvero qualcosa in Italia».
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