Rosario Livatino, il primo giudice beato
L'intervista ad Alfredo Mantovano del Centro Studi Livatino dopo la notizia della beatificazione
A fine dicembre era arrivata la notizia della beatificazione del “giudice ragazzino”: Rosario Livatino, ucciso dalla stidda agrigentina, il 21 settembre 1990, sulla strada di Porto Empedocle verso Caltanissetta. Livatino diverrà “martire in odium fidei”: sarà così, dopo l’autorizzazione di Papa Francesco - avvenuta il 21 dicembre scorso - alla Congregazione della Causa dei Santi. Il primo giudice “beato”. A parlarne sarà il webinar che si terrà martedì 5 gennaio alle 18, organizzato dal Centro Studi Livatino, dal titolo “Rosario Livatino, il giudice santo”, al quale interverranno: il Cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione della Causa dei Santi; Monsignor Vincenzo Bortolone, Arcivescovo di Catanzaro e postulatore della causa di beatificazione; il poeta Davide Rondoni; il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho e il Professor Mauro Ronco, Presidente del Centro Studi Livatino. “San Francesco, patrono d’Italia” ha raggiunto Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro Studi Livatino, per commentare questa iniziativa.
Il suo primo sentimento di uomo, di magistrato alla notizia della Beatificazione: qual è stato?
Ricevendo i componenti del Centro studi intestato a Rosario Livatino, il 29 novembre 2019, in occasione del convegno nazionale annuale che si è tenuto nella stessa data, Papa Francesco ha ripreso, fra gli altri il passaggio di una conferenza tenuta dal magistrato di Canicattì: "Decidere è scegliere [...]; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. [...] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto, per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. [...] E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”. Il riconoscimento del martirio di Livatino illumina sul significato del lavoro del giudice, perché permette di conciliare il “non giudicate per non essere giudicati” con la quotidiana amministrazione della giustizia. Esorta alla professionalità, che è ricerca del fatto concreto oggetto del giudizio, e confronto con la norma: è l’essenza del lavoro del magistrato, chiamato a mettere da parte visioni ideologiche, risentimenti personali, condizionamenti di carriera.
Il Centro Studi - da tempo - è impegnato a tener viva la testimonianza del giudice Livatino. Quanto è stato importante il ruolo del Centro nel processo di Beatificazione?
Ovviamente il Centro studi non ha avuto un ruolo diretto nella causa di beatificazione. Da quando è stato costituito, esso ha tuttavia in più occasioni ricordato il giovane magistrato siciliano - la cui figura era presente a pochi -, a partire dal suo primo convegno nazionale, nel 2015, a lui dedicato nel 25° della morte. Immagino che abbia avuto il suo peso il discorso, che prima menzionavo, di Papa Francesco, l’unico - che io sappia - di un Pontefice dedicato a Rosario. Da non trascurare anche l’omelia del card. Bassetti nella S. Messa celebrata a Roma in occasione dei 30 anni dall’omicidio, il 21 settembre scorso, per iniziativa del Centro studi.
Come è stata accolta dal Centro la notizia?
Con gioia e gratitudine. Gioia, perché la Chiesa anche formalmente indica nel giudice di Canicattì un modello per ogni giurista, in particolare per ogni magistrato. Gratitudine perché si completa un cammino che è iniziato col monito di S. Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi il 13 maggio 1993 - l’ordine, più che l’invio, ai mafiosi a convertirsi perché “verrà il giudizio di Dio” -, pochi minuti dopo aver incontrato i genitori di Livatino. In quella occasione il Papa polacco aveva qualificato Rosario "martire della giustizia e indirettamente della fede”. “L’attualità di Rosario Livatino - ci diceva sempre Papa Francesco il 29/11/2019 - è sorprendente, perché coglie i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti, non soltanto in Italia, cioè la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti “nuovi diritti”, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”. E da questi segni, che denuncia, egli ha preso le distanze in modo motivatamente deciso.
La lotta contro la criminalità organizzata è ancora viva. Passano gli anni, passano i volti, ma il tema è sempre presente. Cosa direbbe oggi Rosario Livatino ai giovani magistrati?
Rosario Livatino “farebbe”, come ha “fatto” in vita, più che “dire". Nel contrasto alla criminalità mafiosa Giovanni Falcone è stato lo stratega, non solo in Italia: le prospettive che ha aperto sono tuttora valide. Paolo Borsellino è stato il generoso condottiero sul territorio siciliano. Rosario Livatino, pur non avendo vissuto - come i primi due - in luoghi importanti, Roma o Palermo, tuttavia ha svolto al meglio il suo dovere sul fronte dei sequestri e delle confische dei beni, che maggiormente colpisce i mafiosi. Gli italiani hanno conosciuto della sua esistenza il giorno dell'omicidio, ma i criminali operanti sul suo territorio sapevano bene chi era. È un insegnamento pure questo: chi ottiene i risultati più efficaci spesso è ignoto ai più, non frequenta i talk show, non fa dichiarazioni a effetto, non alimenta polemiche, ma guarda alla faticosa sostanza quotidiana.
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