Ritorno al futuro (prossimo) sulla strada di San Benedetto
Esce per Marsilio 'Le regole del cammino', di Antonio Polito
La linea di partenza del libro, che è un cammino in sé e non solo una riflessione sul camminare, rimanda dritto alla domanda di Bruce Chatwin. Che ci faccio qui? What Am I Doing Here , titolo che era senza punto interrogativo nella versione originale del 1988 - lo scrittore britannico era sempre in viaggio, qui era il viaggio - ma che non poteva non evocarlo nella traduzione italiana, data alle stampe per Adelphi l'anno successivo. Chatwin, in quella fortunata edizione grigioverdina, appariva sulla copertina in una foto-ritratto di Lord Snowdon con scarponcini al collo appesi per le stringhe, giubbotto, zaino semivuoto. Più o meno così Antonio Polito si presenta alle 7 di una mattina di giugno nella piazza centrale di Norcia, sotto la statua di San Benedetto, diretto con tre amici (il Prete, la Collega, il Professore) all'abbazia di Montecassino, dove il santo è sepolto. Subito l'autore-camminatore si dichiara neofita, un neofita da manuale, perché in verità il suo di zaino si rivelerà ben presto troppo carico e dovrà - in una delle pagine più belle dell'intero racconto - essere svuotato di ciò che non è essenziale per approdare con dignità alla fine del giorno.
Il peso, avvertiva Calvino nelle Lezioni americane , è rappresentato dall'inessenziale. Possiamo spogliarci di tante certezze dure come pietre e di abitudini che si rivelano polvere. Possiamo persino rinunciare alle scarpette da doccia e a qualche strato di biancheria di ricambio. Nel saio di Francesco, rivela uno studio citato dall'autore a proposito di modelli frugali, sono stati contati 31 rammendi: la stoffa di 19 toppe proveniva dal mantello di Chiara. Che cosa ci attende dunque lungo Le regole del cammino (Marsilio)? Che cosa tra il nomadismo moderno di Chatwin e quel seminare civiltà che fu proprio dei Benedettini alla fine dell'Impero romano? Ci attende un percorso, un avanzare capitolo dopo capitolo attraverso il nostro tempo verso una meta che è assieme straordinaria e umile: un tentativo di rigenerazione. Un tentativo, personale e politico, di «calcare la terra» per ricominciare. In questo 2020 sempre doloroso, tormentato e ancora confinato. Ricominciare magari barcollando, scivolando tra i sassi dei ruscelli, perdendo a tratti la strada. Niente inversioni a U, però, basterà restare in bilico: e sarà ammessa ogni incertezza finché non raggiungeremo un'altra linea, quella dell'arrivo, e ci volteremo indietro per esclamare con Tiziano Terzani - La fine è il mio inizio - «Oh, guarda, c'è un filo».
Il bello de Le regole di Polito è che le sue osservazioni non si stendono mai su piani sovrapposti e disgiunti, tanto da comporre un vademecum millefoglie che va dal trekking al monachesimo passando per i discorsi sul Covid del presidente del Consiglio Conte. A muoversi - e questo è il primo passaggio fondamentale - è un corpo pensante, un tutt' uno non scindibile in testa, cuore e polpacci. «Basta qualche chilometro di trionfante e quasi inconsapevole fisicità, e insieme ai sensi si mette in moto il cervello». Ci dicono le nuove scienze che tra i processi percettivi, cognitivi e motori non esiste un rapporto gerarchico o di sequenzialità, quanto una circolarità per cui l'azione influenza sia la percezione sia il pensiero astratto. Proprio questo accade al protagonista del viaggio mentre ragiona e inspira, poi espira e continua a ragionare di religione, leggerezza, equità tra uomini e donne, sistemi parlamentari. E poi, e qui sta il secondo punto di forza del diario, non c'è mai strappo nel flusso di lettura. Non c'è disagio mentre ci spostiamo dal ripostiglio della casa avita, dove ogni tanto esplodeva una conserva di pomodoro che era stata sigillata male, alle arene pubbliche, dove si combatte in diretta streaming l'eterna resa dei conti tra pensiero liberale e pensiero democratico.
Kant, Rousseau, Popper, Bobbio trovano posto con Pier Paolo Pasolini e Yascha Mounk in una composizione itinerante di citazioni, idee, immagini, colorata anche dalla memoria di quegli schizzi rossi sulle pareti dello stanzino impregnato dell'odore acido e dolciastro di salsa. «Giurerei di sentirlo ancora adesso, e scatena in me una serie di ricordi manco fosse una madeleine proustiana». Fermiamoci allora in tre delle stazioni che Polito propone durante un cammino capace di unire il centro del Centro, l'Italia dei boschi e dei borghi che dischiude una promessa di seconde vite, al centro stesso della sua esistenza, che riverbera invece il sostrato delle prime vite «dove si consumarono gli anni della gioia e dei dolori» di chi ci ha generato. Stazione ineludibile del viaggio di ciascuno è la casa dalla quale dobbiamo uscire, lasciando dietro di noi l'eskimo verde e il loden blu, il 45 giri dei Rokes Che colpa abbiamo noi e tutto quanto i nostri genitori hanno trattenuto di come eravamo. La casa che dobbiamo svuotare quando, prima una poi l'altro, i genitori non ci sono più. In svedese esiste una parola che racconta questo passaggio: le chiamano «pulizie della morte», dostadning , e sono il rito più straziante del diventare adulti, un'immersione tra i rovi e le alghe delle nostre radici familiari con obbligo (non scontato) di ritorno a galla. «Devo confessare che una delle ragioni per cui ho scelto la via di San Benedetto, forse anche solo inconsciamente, è che arriva a Montecassino. Ai piedi di questa altura, infatti, è nata e ha vissuto la sua vita da signorina mia madre, ed è qui che ho passato tutte le estati della mia infanzia (...). Forse sto camminando anche per lei, e per me questo cammino rappresenta un nostos , un ritorno alle origini».
La seconda stazione chiama invece una sosta per parlare di/con Dio, perché forse è «impossibile camminare senza pensare a Dio». In particolare lungo una via che è costellata di santi. Benedetto e Francesco, Santa Rita, San Tommaso, San Pietro l'eremita, Santa Maria Salome, un cast di donne e uomini di altri tempi che qui ritornano con le loro storie e reliquie come affluenti verso un flusso di coscienza dove tutto entra senza tuttavia dilagare. Polito confessa che il pellegrinaggio in qualche modo è davvero un pellegrinaggio, laico sì ma anche cristiano. «Insieme alla circolazione del sangue e alla ventilazione, e all'unisono con esse, si risvegliano anche le domande, quelle di sempre, quelle che ci rendono umani». E dunque le domande, per ora, diventano guida, senza pretendere risposte che forse non sono mai state cercate. Qui viene in soccorso Voltaire quando concludeva che «qualcosa esiste, qualcosa c'è fin da tutta l'eternità. Questo mondo è fatto con intelligenza, dunque è fatto da un'intelligenza». Idee naturali contrapposte, con buonsenso, alle idee soprannaturali. La pandemia è (stata) la nostra Montagna incantata : l'isolamento, la fragilità, l'incertezza nella malattia hanno riacceso una sensibilità che - finalmente - buca l'apatia e la frenesia, l'inerzia e a volte l'ignavia dei pensieri chiusi. Intanto camminiamo, si dice l'autore, poi vedremo se abbiamo fatto passi avanti. In fondo i cristiani, in mezzo alle rovine dell'Impero romano, agivano da minoranza creativa. La terza tappa, tra tante ancora possibili, pone un interrogativo che fa da sintesi ideale ai sentieri - individuali e collettivi, alti e bassi - percorsi fin qui.
Per persone che si rimettano in cammino che cosa significa progredire? Che cos' è il progresso nostro, del Paese, dell'umanità? «Se oggi dovessi definirmi - ammette l'autore mentre si avvicina all'abbazia e quindi alla consegna del Testimonium , il documento che attesta la strada coperta - certamente non userei più il termine "progressista" che ho invece trovato efficace per gran parte della mia vita». Da qualche parte si è persa l'idea, facile e confortante, del progresso come accumulo secondo una logica illuminista intesa meccanicamente per cui il superamento è sempre positivo, quello che verrà comunque migliore. E se dirsi «progressisti» non basta più a benedire un'identità, c'è forse una categoria dello spirito da rivalutare. Quella che della triade rivoluzionaria francese ha raccolto meno cuoricini e pollicini alzati in due secoli e mezzo di storia. La fraternità o fratellanza che, rispetto a libertà e uguaglianza, «è uscita male dalla modernità». E invece, in tempi di contagi e sofferenze e dubbi, ecco che superare frammentazioni, camarille, sette politiche e televisive, corporazioni vecchissime e rinnovate sui social, potrebbe essere una strada sensata. Un po' l'opposto di quell'attitudine ad «asfaltare» i terreni dei vicini che fino alla non rielezione di Trump sembrava destinata a dare il ritmo al cammino del mondo. (Corriere della Sera)
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