fede

Papa Francesco, il dialogo e l'incontro come antidoto alla violenza

Redazione online Andrea Cova
Pubblicato il 30-11--0001

Quello di cui parla Francesco è un ecumenismo «di popolo». In paziente attesa che si compiano passi concreti per arrivare a condividere il calice sull’altare

Il recente viaggio del Papa in Georgia e Azerbaigian ha offerto ancora una volta un esempio di quale via Francesco intenda percorrere nel cammino ecumenicoe nel dialogo tra le religioni. Nel dialogo con i sacerdoti, i religiosi e i seminaristi a Tbilisi, sabato 1° ottobre, Bergoglio ha risposto così alla testimonianza di un seminarista che gli raccontava la fatica dei rapporti tra cristiani di diverse confessioni. «Mai litigare! Lasciamo che i teologi studino le cose astratte della teologia. Ma che cosa devo fare io con un amico, un vicino, una persona ortodossa? Essere aperto, essere amico. “Ma devo fare forza per convertirlo?”. C’è un grosso peccato contro l’ecumenismoil proselitismo. Mai si deve fare proselitismo con gli ortodossi! Sono fratelli e sorelle nostri, discepoli di Gesù Cristo. Per situazioni storiche tanto complesse siamo diventati così. Sia loro sia noi crediamo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, crediamo nella Santa Madre di Dio. “E cosa devo fare?”. Non condannare, no, non posso. Amicizia, camminare insieme, pregare gli uni per gli altri. Pregare e fare opere di carità insieme, quando si può. È questo l’ecumenismo. Ma mai condannare un fratello o una sorella, mai non salutarla perché è ortodossa». 

Da tempo la Chiesa ritiene conclusa la via dell’uniatismo. Gli ultimi Papi, oltre a promuovere il dialogo teologico con l’ortodossia (l’unica, vera, profonda differenza riguarda l’esercizio del primato del Vescovo di Roma), hanno moltiplicato i gesti di amicizia. Incontri storici, a partire dall’abbraccio aGerusalemme tra Paolo VI e Atenagora, fino alle visita di Giovanni Paolo II ad Atene e in Georgia, o di Benedetto XVI ad Istanbul, hanno aiutato a consolidare un cammino comune. Anche il dialogo teologico ha fatto passi in avanti: a partire dal Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica sta recuperando coscienza dell’importanza della collegialità e della sinodalità. Mentre le Chiese ortodosse cominciano a guardare con occhi diversi al primato e al suo esercizio nel mondo sempre più globalizzato. Quello di cui parla Francesco è un ecumenismo «di popolo». In paziente attesa che si compiano passi concreti per arrivare a condividere il calice sull’altare, è importante moltiplicare occasioni per lavorare insieme. La Chiesa georgiana è tra le meno ecumeniche. Eppure i quattroincontri del Papa con il Patriarca Ilia II sono stati improntati da amicizia, accoglienza, fraternità vera e non di facciata. Bastava guardarli prima ancora di ascoltarli. A che cosa porterà questo? Non lo sappiamo. Ci saranno effetti positivi? Difficile dirlo. Di certo un nuovo piccolo passo è stato compiutorispetto all’ultima visita di un Papa, quella di Giovanni Paolo II nel 1999, avvenuta in un clima certamente più freddo, e non soltanto per motivi meteorologici. 

Il viaggio in Azerbaigian è stato significativo anche per il dialogo con le altre religioni. Importante in questo senso l’ultimo discorso del Papa, pronunciato in moschea alla presenza dello sceicco dei musulmani del Caucaso. Il dialogo, ha spiegato Francesco, non è «sincretismo conciliante»: non è cioè l’annullamento delle differenze in una melassa indistinta. Non è l’Onu delle religioni, idea contro cui tuonano i critici di san Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Francesco, tutti «rei» di aver presenziato a incontri con una massiccia e colorata partecipazione di leader appartenenti alle varie religioni. Non è neppure, ha spiegato Papa Bergoglio, «un’apertura diplomatica, che dice sì a tutto per evitare i problemi». Cioè un rifugiarsi nei tatticismi che finisce per ignorare o censurare la realtà. Bisogna invece, ha detto Francesco, «dialogare con gli altri e pregare per tutti: questi sono i nostri mezzi per far sorgere amore dove c’è odio e perdono dove c’è offesa». 

Le religioni, tutte le religioni, «nella notte dei conflitti che stiamo attraversando», sono chiamate ad essere «albe di pace, semi di rinascita tra devastazioni di morte, echi di dialogo che risuonano instancabilmente, vie di incontro e di riconciliazione per arrivare anche là, dove i tentativi delle mediazioni ufficiali sembrano non sortire effetti». Mai devono lasciarsi strumentalizzare o strumentalizzare il santo nome di Dio, facendone un paravento per giustificare odio, violenze, terrorismo, guerre. Le religioni, al contrario, ha spiegato il Papa nella grande moschea di Baku, «sono chiamate a edificare la cultura dell’incontro e della pace, fatta di pazienza, comprensione, passi umili e concreti. Così si serve la società umana». 

I fautori dello scontro di civiltà, che desidererebbero dalla Chiesa un atteggiamento più battagliero verso l’islam in nome dei valori dell’Occidente e di una nostalgia per la Cristianità ormai tramontata, per contrapporre Papa Bergoglio ai suoi predecessori sono costretti a dimenticare quanto ha fattoGiovanni Paolo II, il primo Vescovo di Roma a entrare in una moschea(Damasco, 2001). Il Papa che dopo gli attentati dell’11 settembre volle riunire ad Assisi le religioni proprio per cercare di togliere qualsiasi copertura «religiosa» all’abuso del nome di Dio perpetrato dai terroristi fondamentalisti. Benedetto, sorridente e pacifico, ha pregato in silenzio davanti al mihrab della Moschea Blu di Istanbul, accanto all’imam. Lo stesso identico gesto l’ha compiuto il suo successore. Ogni gesto di amicizia, anche piccolo; ogni condivisione, ogni esempio di convivenza possibile, è un piccolo «pezzo» di quella pace che rappresenta l’unica risposta alla Terza guerra mondiale «a pezzi». 

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