fede

L'amore di papa Paolo VI per le parole

Antonio Tarallo Redazione online
Pubblicato il 12-10-2018

IL GIORNALISMO ERA NEL SUO DNA PER STORIA PERSONALE E INTELLUTTUALE

Era nel suo dna, il giornalismo. Giovanni Battista Montini, per storia personale (il padre era giornalista), per inclinazione intellettuale (di una profondità intellettuale, però, non fine a sé stessa), per animo, aveva una sorta di inclinazione “naturale” alle parole, alla giusta “conformazione” di queste. Quello che, per intenderci, per i latini era l’ ars dicendi, l’arte del dire. E’ facile riscontare in ogni discorso del suo pontificato, quanto fosse importante per lo “scrittore” Montini, il dare  – attraverso le parole – una netta figurazione del concetto espresso. E Paolo VI, riusciva  – in sorprendente profondità e poeticità – a toccare vette di una “retorica” (nell’eccezione positiva, non negativa come ultimamente, invece accade) “pragmatica”, così si potrebbe definire.  


E il “pragmatica” sta ad indicare questo: dietro ogni parola espressa, l’importanza della presenza di un reale “fatto”, o sentimento. E, molte volte, l’utilizzo stilistico delle figure retoriche, invece di “allontanare” il lettore/ascoltatore, riuscivano a introdurlo meglio nel “concetto”, nella “idea” che il Papa voleva sottolineare, esprimere, in quel preciso momento, al popolo di Dio. Un esempio concreto. La famosa omelia per il suo defunto amico fraterno Aldo Moro. 13 maggio 1978. L’incipit è vibrante, forte, poetico: “Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce”.  

Era importante focalizzare l’attenzione su quel “come” scriveva, sul “come” parlava Paolo VI,  per poter descrivere meglio la sua formazione “giornalistica” che determinerà – profondamente – anche il suo pontificato. La laurea in Lettere all’Università della Sapienza di Roma (e dunque in un istituto universitario non clericale) è punto fondamentale per comprendere come fosse presente in lui, il desiderio di “apertura” al mondo, che troverà, poi, la massima espressione, nella missione lombarda come Arcivescovo di Milano.

Tra l’altro, Montini, nel periodo in cui fu assistente ecclesiastico della Fuci promosse e stimolò le riviste dell’associazione, “Studium” e “Azione Fucina”, da lui ideata. Di questo periodo, si contano, quasi duecento articoli. Mentre, nel lungo periodo del lavoro presso la Segreteria di Stato Vaticana, spettò proprio a lui il compito di seguire “L’Osservatore Romano”. Come Arcivescovo di Milano   – dove si stampava il quotidiano cattolico “L’Italia” – prese l’iniziativa di creare due periodici mensili diocesani, ai quali collaborò senza sosta. Dobbiamo a Paolo VI, grazie al Motu proprio  “In fructibus multis” (1964), la creazione della Pontificia commissione delle comunicazioni, e nel 1967, della Giornata mondiale per le Comunicazioni sociali. E fu sempre Montini il primo pontefice a concedere un’intervista ad un giornalista, Alberto Cavallari, inviato storico del Corriere della Sera, il 23 settembre 1965 pochi giorni prima della sua partenza per New York.

Montini giornalista, ma anche innovatore della comunicazione. Siamo negli anni ’60, un mondo in cambiamento continuo. I media cominciavano, sempre più, ad essere presenti nel panorama storico italiano ed internazionale, sotto tutti i possibili aspetti, da quello sociale a quello politico, da quello antropologico (che toccava ogni singola persona) a quello globale (non era presente ancora la rete d’internet, certo, ma la visione “comunitaria internazionale” aveva avuto largo sviluppo).  In questo contesto storico, Paolo VI, decide di costituire “qualcosa” di cui il mondo cattolico era sprovvisto: un nuovo giornale “laico” ma di impronta cattolica: nasce il quotidiano  “Avvenire”,  grazie alla fusione di due giornali, “L’Italia” e “L’Avvenire d’Italia”.  “Avvenire” sanciva la nascita di un quotidiano, che a differenza de “L’Osservatore”, era autonomo dalla gerarchia ecclesiastica. Uno strumento di “apertura” al mondo, di ascolto del mondo, e di “approfondimento” della società che pian piano stava vivendo sensibili cambiamenti.  E quest’ultimi, secondo il “profeta” Montini, non potevano non essere posti sotto la “lente” dei cattolici. Il nuovo quotidiano diveniva, così, uno “strumento di evangelizzazione, di dialogo con il mondo moderno e quindi di missione”. Questo concetto – quello di evangelizzazione, inteso anche come “informazione” – sarà un tema sempre presente nel pontificato di Paolo VI, tanto che lo stesso pontefice, affermerà nel 1976 che l’evangelizzazione, “porta con sé l’elevazione dell’uomo, ne promuove la dignità, la libertà, la grandezza”.


Dunque, quasi per matematica equazione, se l’evangelizzazione doveva portare le persone a raggiungere questi alti traguardi, era indispensabile – per papa Montini – avere un’informazione che potesse essere all’altezza di questa importante missione. E, per fare questo, aveva compreso – con lungimirante visione – quanto fosse importante la professionalità, l’amore, il coraggio della verità, nel condurre avanti una editoria corretta e approfondita.


Parlando, un giorno, con il suo amico filosofo Jean Guitton, del suo amore per la lingua francese, sottolineò come per la parola “approfondimento”, la lingua italiana fosse priva – a dispetto di quella   française – di un suono che rendesse bene il suo significato. In quella parola, “approfondissement”, forse, è possibile trovare una giusta metafora di come il Montini giornalista, cultore dei fatti e delle parole, intendesse l’Informazione.


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