Fra Domenico Paoletti: Porziuncola, quali i presupposti del perdono?
Che cosa occorre dunque per celebrare il perdono di Assisi? Riscoprire il primato del dono dell’amore liberante di Dio nella nostra vita
Francesco d’Assisi è l’uomo che impara a riconoscere che tutto è dono e per-dono, e vuole che tutti imparino a perdonare - sperimentando il perdono di Dio - e imparino a dire grazie alla grazia. Spinto da profonda gratitudine, triste nel vedere persone rabbuiate dall’egoismo e della paura di un Dio severo, chiede e ottiene dal Signor Papa Onorio III, nel 1216, il Perdono di Assisi; rivolgendosi alla gente accorsa, pieno di gioia esclama: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso”.
Celebrare ogni anno la festa del perdono può portare a una certa assuefazione, anestetizzarci alla sovrabbondanza dell’amore e del perdono di Dio. Che cosa occorre dunque per celebrare il perdono di Assisi? Riscoprire il primato del dono dell’amore liberante di Dio nella nostra vita, ed esserne profondamente grati. Il per-dono, come il dono, non si ‘merita’, è un atto gratuito di amore; ma per funzionare dev’essere accolto. Forse oggi stiamo smarrendo il senso della gratitudine, che è molto più di un ringraziamento, è uno stile di vita, la risposta al dono della vita.
“Il principio della vera conoscenza è lo stupore” (Clemente di Alessandria). Non si può essere grati senza essere capaci di stupirsi. Invece la cultura che respiriamo, i vari messaggi che ci arrivano da ogni parte, sono per la maggior parte all’insegna dell’autonomia ingrata. Se non riusciamo a stupirci, non siamo nella verità della vita. Francesco è pieno di stupore riconoscente, perché riconosce l’amore pervasivo di Dio in lui, in tutti gli esseri umani e in tutto il creato.
La fede non è altro che riconoscere l’amore di Dio per noi (cf 1Gv 4,16), e riconoscere il primato del dono è scoperta feconda di conoscenza, di gioia e di libertà. Di fronte all’amore di Dio, concretamente manifestato in Gesù Cristo che ci ha amati fino a dare se stesso per noi (cf Ef 5,2), ci scopriamo peccatori perché poco capaci di risposta generosa nel ri-donarci. Con l’affievolirsi dello stupore per i beni ricevuti, anche il senso del peccato si indebolisce. Il peccato, nel senso inteso dal vocabolario, è “azione mancata”, smarrimento e alienazione. In realtà il peccato, anche se redento da Cristo, è radicato nel cuore dell’uomo e nella sua storia, e continua a produrre sofferenza, infelicità e morte.
Sono sotto gli occhi di tutti i segni del peccato nell’uomo e nell’umanità di oggi: porte blindate, porti che vengono chiusi, muri che vengono innalzati, guerre, povertà, sfruttamento delle persone e dell’ambiente. Il peccato è venire meno alla nostra vocazione, alla nostra chiamata fondamentale che è amare, donare e perdonare, in risposta a un Dio che ci ama per primo, che ci ha colmato dei suoi doni, che perdona le nostre colpe. Il perdono, la misericordia di Dio, è l’amore più grande del peccato. Gesù, trasparenza assoluta della misericordia del Padre, è venuto per vincere il peccato e donarci il perdono, per ridonarci la pienezza della vita (la salvezza è questo).
Dopo essersi fatta presente in Cristo, la misericordia di Dio deve continuare a farsi presente nella Chiesa. È la responsabilità primaria della Chiesa. Il perdono è unito alla conversione, al “fare penitenza”, cioè a cambiare atteggiamento interiore e stile di vita, confrontandosi non con i propri schemi sterili e superati, ma con il Dio “dives in misericordia”. Convertirsi è credere; è ritrovare la propria identità di figli di Dio, aperti alla sua chiamata e capaci di comunione. Sono questi i presupposti per vivere autenticamente il Perdono di Assisi.
E in tanti modi li ritroviamo espressi nell’annuncio di Francesco, nella sua vita intera.
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