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Card. Sako: Papa in Iraq, fede usata per dividere può unire

Lorenzo Cremonesi Archivio Ansa
Pubblicato il 26-02-2021

Attesa per la visita del Pontefice

«Un evento eccezionale. Lo attendevamo da decenni. Ne avevamo immenso bisogno dopo tutti questi anni di buio. La visita del Papa in Iraq lancia un segnale di speranza, non solo al nostro Paese, non solo alla comunità cristiana, ma all' intero Medio Oriente». Ne parla con una sorta di dolorosa gioia il 71enne cardinale Louis Raphael Sako, che dal 2013 è patriarca della comunità caldea e la cui famiglia viene da Mosul, per antonomasia la città del martirio nazionale e cristiano sotto la morsa di Isis tra il 2014 e il 2017. Ci ha ricevuto ieri nel suo ufficio. Fuori, la città si prepara per la visita prevista dal 5 all' 8 marzo. Vengono montate le bandiere vaticane lungo le strade, ripulite le chiese. Ai blocchi della polizia imposti dall' emergenza virus si sommano le misure di sicurezza contro possibili attentati jihadisti al convoglio papale.

Cardinale, una sua lettura della visita.

«L' Iraq sprofonda nella crisi aperta decenni fa. Prima le guerre di Saddam Hussein, l' embargo internazionale, gli effetti drammatici dell' invasione americana del 2003, poi il terrorismo, il settarismo, la corruzione imperante, la fine dello Stato centrale, Isis, la povertà, gli omicidi, le milizie divise su base religiosa: tutto ciò ci ha prostrati, siamo un Paese ridotto all' ombra di sé stesso. Il messaggio di pace e fratellanza del Papa ha un' importanza eccezionale. Ci viene a dire che la religione non divide, tutt' altro, può unire, aiuta a trovare linguaggi comuni in Dio e nella fede. Dobbiamo porre fine alla decadenza della convivenza civile».

Ma il governo del premier Mustafa al Kadhimi non riesce a risolvere il disastro?

«Ci provano, magari anche con tutta la loro buona volontà, ma non ce la fanno. Purtroppo, siamo tutti vittime del tribalismo settario. L' Iraq è alla mercé di una miriade di interessi particolari».

Isis uccideva in nome di Allah. La religione divide?

«In Iraq, come in altre regioni del Medio Oriente, la religione è strumentalizzata per fini politici. Si uccide in nome di Dio. Ecco l' importanza dell' appello papale, profondamente cristiano, che cambia radicalmente la prospettiva: al centro della religione non è Dio, bensì l' uomo. Il figlio di Dio si fa uomo affinché l' uomo sia uomo. Il Papa viene a dirci che siamo tutti fratelli, tutti figli di Dio, contro ogni particolarismo, contro chiunque utilizzi la religione per prevalere sugli altri».

Perché la centralità della visita a Ur, presso Nassiriya, la terra natale di Abramo?

«Per ribadire l' appello alla fratellanza. Abramo è padre di noi tutti: ebrei, cristiani, musulmani. Isis andava a recuperare nei testi sacri le parole della guerra, le isolava dal contesto e così le falsificava. Noi le rimettiamo assieme per ricostruire il significato originale delle Scritture, che è di armonia e amore. Ur diventa il luogo di ripartenza del dialogo interreligioso. Il Papa qui vedrà anche gli esponenti sunniti, degli yazidi e di altre fedi. Sarà un continuo incontrarsi e parlarsi».

Il Papa cosa dirà il giorno dopo al leader sciita moderato Ali al Sistani a Najaf?

«Resta previsto un loro lungo colloquio privato. Sono certo si capiranno. Sono due persone informali, spontanee. Sistani è un saggio, un mistico nel senso spirituale, si troverà bene con Francesco. Con il mondo sunnita il Papa aveva già parlato durante il viaggio due anni fa all' università di Al Azhar al Cairo. Era tempo che facesse lo stesso con un importante esponente sciita. La maggioranza del popolo iracheno è sciita».

Vent' anni fa i cristiani iracheni sfioravano il milione e 600mila. Oggi non arrivano a mezzo milione.

«La nostra persecuzione inizia in modo tragico dopo l' invasione militare americana del 2003. Sono stati i soldati americani a distruggere il nostro esercito. Da allora ogni tipo di estremista ha potuto invadere l' Iraq. Siamo precipitati nell' anarchia. Oggi si tendono a ricordare solo i crimini di Isis. Ma nel decennio dopo il 2003, prima dell' instaurazione del Califfato, sono state attaccate 58 chiese, ben 1.025 cristiani sono stati assassinati, tra loro il vescovo di Mosul. La maggioranza dei cristiani è emigrata proprio in quel periodo verso Libano, Giordania e Turchia, quindi in Canada e soprattutto negli Stati Uniti. Non torneranno più, purtroppo. Intere comunità antiche quasi due millenni sono sparite per sempre».

Sarà difficile fare festa col Papa con queste premesse?

«Non sarà una festa. Lo accoglieremo senza trionfalismi, consapevoli di trovarci nel mezzo del tunnel. L' emigrazione rallenta unicamente perché la pandemia rende il viaggio molto più complicato, i confini sono semichiusi. Però la presenza del Papa aiuterà a rilanciare l' attenzione del mondo sul dramma delle Chiese orientali, antichissime e mai così fragili. Il fatto che abbia scelto di celebrare messa nel rito orientale e non latino non è un semplice dettaglio. Non era mai avvenuto».

Parlando tra i suoi fedeli abbiamo trovato tanti che temono un grave attentato di Isis. Il Papa è in pericolo?

«Non credo. Le misure di sicurezza sono imponenti. Isis ha perso forza. Restano piccole cellule isolate». (Corriere della Sera)

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