“humanae vitae” 50 anni dopo
Il prossimo 25 luglio si compie mezzo secolo dalla pubblicazione della discussa enciclica di Paolo VI Humanae vitae. E in questo anno sono stati programmati tanti simposi, convegni, seminari, tavole rotonde e pubblicazioni, che è difficile trovare aspetti che non siano già oggetto di analisi e dibattito; tuttavia non è inutile fare il punto dello status quaestionis, tentare una sintesi del pensiero di Paolo VI e del dibattito ancora in corso: finché non si riesce a sintetizzare, è segno che la problematica su cui si riflette vaga tra le nebbie.
Per capire l’enciclica occorre contestualizzarla nel dibattito che ne ha preceduto e accompagnato la stesura. Giovanni XXIII nel marzo del 1963 aveva istituito una Commissione di studio per vagliare i diversi pareri sulle nuove questioni riguardanti la vita coniugale, in particolare il giusto modo di regolare la natalità. La Commissione fu confermata ed allargata da Paolo VI, sempre attento a meglio comprendere la complessità dei problemi. Dopo cinque anni di studio pervenne a conclusioni che il papa ritenne di non poter accettare, sembrandogli che si discostassero dal costante insegnamento della Chiesa sulla dottrina morale del matrimonio. Avvertì quindi l’urgenza pastorale di un orientamento.
Paolo VI parte da una visione integrale dell’uomo, colta e accolta all’interno della vocazione e del progetto creatore di Dio Padre. L’enciclica Humanae Vitae presenta una visione anagogica dell’amore umano, lo guarda cioè dal punto di vista di Dio, e invita ad avere uno sguardo contemplativo sull’amore coniugale. Dio ha istituito il matrimonio per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore: «Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite» (HV 8).
Benedetto XVI, nel Discorso per il 40° dell’enciclica, afferma chiaramente che «la parola chiave per entrare con coerenza nei suoi contenuti [dell’HV] rimane quella dell’amore». Anche Paolo VI, in un’epoca di profondi cambiamenti socio-culturali che ha proprio nel ’68 la data emblematica, ricorda la dottrina tradizionale che distingueva tra fine primario del matrimonio (procreativo) e fine secondario (unitivo). L’enciclica, in questo proseguendo sulla strada tracciata dal Concilio (che non istituiva più alcuna gerarchia dei fini), segna insieme l’approfondimento e il superamento della distinzione, per rendere più evidente l’unità dell’atto umano e la sua integrità secondo una visione olistica della persona. I fini si compiono e si completano l’uno nell’altro, e non l’uno senza l’altro. Muovendo da questa visione integrale e dalla verità dell’amore, Paolo VI ribadisce chiaramente la «connessione inscindibile, che Dio ha voluto […], tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. Infatti, per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna» (HV 12).
L’unità dell’atto si fa evidente se si tengono presenti le caratteristiche del vero amore degli sposi. Esso è amore umano, ossia sensibile e spirituale (sensibilità da intendere non solo sul piano delle pulsioni psicofisiche, ma come apertura allo Spirito e suo dono e come atto della libera volontà). Amore totale, ossia senza riserve. Amore fedele ed esclusivo, per una sempre più intima e duratura felicità. Amore fecondo: non si esaurisce nella comunione dei coniugi ma suscita nuove vite, “più vita” e l’avvalora e custodisce. All’interno di questa visione va collocata la discussione sui metodi contraccettivi che, secondo la dottrina dell’enciclica, risultano “oggettivamente disordinati” in quanto, negando le caratteristiche dell’atto coniugale, non rispettano l’ecologia umana. Pertanto - qui il nodo problematico - viene esclusa come intrinsece malum «ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione» (HV 14).
Paolo VI appare consapevole del fatto che «questo insegnamento non sarà forse da tutti facilmente accolto» (HV 18). È evidente il divario tra la dottrina insegnata dall’HV e la prassi dei coniugi cristiani, tanto che un noto filosofo, Pietro Prini, ha parlato a questo riguardo di uno scisma sommerso. Papa Francesco, grande ammiratore di Paolo VI, ha ribadito la “genialità profetica” di cui egli diede prova nell’HV e il suo «coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale, di esercitare un freno culturale, di opporsi al neo-malthusianesimo presente e futuro» (come disse in un’intervista rilasciata a Ferruccio De Bortoli). Il dibattito si è riaperto prima, durante e dopo i due sinodi sulla famiglia del 2014-2015, anche se altri erano allora i problemi che occupavano il centro delle discussioni sinodali e dell’attenzione pubblica. I dibattiti comunque, nei momenti più luminosi come anche nelle difficoltà e nelle reticenze, testimoniano la complessità della materia. Non si tratta di ribadire una normativa ma di riproporre la bellezza della vocazione al matrimonio, come suggerisce l’esortazione postsinodale Amoris laetitia. È quindi necessario approfondire una riflessione antropologica ed etica che sappia parlarne mostrando tutta la bellezza e l’altezza dell’alleanza sponsale, nell’intreccio tra grazia e libertà.
Il nodo critico del dibattito è se il riconoscimento della connessione inscindibile tra sponsalità e generatività debba automaticamente tradursi in una norma, riferita non solo al matrimonio nel suo insieme, ma ai singoli atti coniugali al suo interno; norma secondo cui una procreazione responsabile esigerebbe in ogni atto unitivo il rispetto assoluto delle leggi fisiologiche della sessualità umana. Di fronte a questa domanda normalmente si ripropone un’alternativa tra “naturale” e “artificiale”, che comporta l’accettazione dei metodi fondati sui giorni di naturale infertilità e il rifiuto della contraccezione farmacologica o meccanica. L’approfondimento della questione, già auspicato a suo tempo da Paolo VI, dovrebbe andare in tre direzioni: il significato della tecnica e il suo rapporto con l’agire umano; il valore e il significato della “natura” (che nel matrimonio riguarda l’esperienza del corpo e della relazione coniugale e generativa); il nesso tra norma e coscienza, tra “oggettivo” e “soggettivo”.
Problematiche complesse, che non si possono evitare o aggirare senza cadere in due estremi entrambi riduttivi: quello di una morale naturalistica che identifica la norma morale con l’osservanza di una legge biologica, e quello di una morale intellettualistica che accetta qualsiasi soluzione tecnica in nome di una nozione inevitabilmente vaga quale quella di amore coniugale non approfondito nei suoi presupposti. Il 50° anniversario della HV è una buona occasione per superare l’alternativa e articolare una visione unitaria della legge e della coscienza, della natura e della cultura, dell’oggettività e della soggettività. Per affrontare correttamente la problematica, è importante anche la scelta terminologica: la regolazione delle nascite (volta a distanziare ragionevolmente le nascite) va distinta dalla contraccezione che, anche quando nel vissuto si riferisca alla stessa realtà, ha di per sé il significato negativo di “impedire il concepimento”, a prescindere dai metodi. Inoltre è necessario riconoscere la congiunzione che sussiste tra “naturale” e “culturale”. Naturale viene dal latino natura - neutro plurale sostantivato - che significa “ciò che nascerà”. Ma la filiazione è anche culturale: implica infatti ricevere il nome, essere riconosciuto come figlio, entrare in una rete di relazioni. Come la morte, la nascita è naturale e culturale. E va riconosciuta la dimensione soprannaturale nell’accogliere la vita come dono di Dio. Questi tre aspetti (naturale, culturale e soprannaturale, cfr X. Lacroix) non possono essere dissociati senza ledere la responsabilità e la libertà dell’essere umano chiamato al discernimento, per la necessaria integralità del dono di sé che dà vero senso all’atto coniugale. Tutto dipende dalla visione del matrimonio e, in particolare, dal significato che si riconosce alla sessualità.
Il nodo teorico alla base del dibattito sull’HV riguarda il modo di superare/armonizzare il contrasto che si è delineato in questi cinquant’anni tra due paradigmi, centrati l’uno sull’oggettività della norma e l’altro sulla soggettività della coscienza. Per non cadere nel soggettivismo relativista di una coscienza senza verità, o nell’oggettivismo rigido e legalistico di una verità senza coscienza, occorre una nuova sintesi, peculiarità della visione cristiana, che abbia al centro non l’aut-aut, ma la congiunzione et dell’unità. Perdendo l’unità, si perde di vista il valore della persona; vi è il pericolo di separare l’amore dalla vita e la vita dall’amore, con derive che già è possibile scorgere. La ripresa del tema della regolazione delle nascite deve avvenire in una prospettiva interdisciplinare alla luce del fundamentum fidei: ossia in un orizzonte ermeneutico illuminato dalla Rivelazione di Dio come Amore.
Ma tale rilettura dell’HV va tenuta al riparo dalle polarizzazioni tipiche della semplificazione mediatica degli argomenti e dalle astuzie degli spiriti mondani della contesa: i quali eludono il rapporto tra logos e nomos, tra concetto e mediazione della legge della realtà, e tendono a schierarsi unilateralmente e sbrigativamente per l’uno o per l’altro.
(Domenico Paoletti - Docente di Teologia fondamentale e vicario della Custodia del Sacro Convento di Assisi – San Bonaventura).
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