esteri

Ucraina, Card. Czerny: orrore della guerra è la sofferenza della gente

SALVATORE CERNUZIO Vatican Media
Pubblicato il 18-03-2022

In missione tra i profughi

“Il viaggio in Ungheria è stato una lente di ingrandimento sulla guerra. Viverla attraverso i media è diverso dal toccarla con mano nei racconti di queste persone. Sì, c’è indignazione nel vedere alla tv e sul web bombe, sangue, devastazione, ma ascoltando le storie dei profughi si sente un forte dolore. Qui sulla pancia. L’orrore della guerra non sono l’economia, le armi, ma la sofferenza della gente”. Il cardinale Michael Czerny è in queste ore in Slovacchia, dove visiterà Bratislava per poi recarsi ai confini con l’Ucraina, ma nella mente e nel cuore porta ancora il ricordo dei tanti uomini e donne incontrati nel suo viaggio in Ungheria. Dall’8 all’11 marzo, il prefetto ad interim del Dicastero per lo Sviluppo umano integrale è stato infatti a Budapest per portare, a nome del Papa, vicinanza e sostegno alle migliaia di profughi fuggiti da Kiev, Kharkiv, Odessa e le altre città ucraine colpite dalla guerra.

Una missione breve – meno di 72 ore - ma intensa, scandita da visite in stazioni, centri accoglienza, parrocchie. Inclusa nell’itinerario anche una tappa a Barabaś, frontiera tra Ungheria e Ucraina, dove sono attivi centri assistenza gestiti da Caritas ungherese, Ordine di Malta e altre realtà cattoliche e organizzazioni no-profit. È da Barabaś che il cardinale, in macchina, accompagnato da alcuni sacerdoti, ha oltrepassato il confine introducendosi nell’estremo ovest dell’Ucraina. La tappa è stata la città di Beregove, piccolo centro della Transcarpazia, finora risparmiato dalle bombe ma divenuto principale punto di ammassamento di profughi che usano il “ponte” dell’Ungheria per trasferirsi in Austria, in Italia e soprattutto in Germania, la meta più ambita.

Nei volti e nei racconti della gente in fuga, Czerny ha rivisto la sua infanzia, quando da bambino è stato anche lui profugo con la famiglia da un Paese comunista, la Repubblica Ceca, verso il Canada. “È un’esperienza che mi è rimasta dentro”, raccontava a chi lo accompagnava nel passaggio al confine. “Non si può non avere paura quando si supera una frontiera”.

Al cardinale gesuita sono state mostrate, nei pochi chilometri che superavano Barabaś da Beregove, alcune Dacia, tipiche case russe di campagna. “Lì ci sono i profughi ricchi”, spiegava un sacerdote. Tra la gente in fuga dalla guerra si registrano infatti soprusi tra chi può permettersi, pagando, rifugi migliori, a scapito degli altri, oppure casi anche di corruzione. Ci sono infatti ucraini che arrivano a chiedere fino a 2mila grivnia (moneta locale) ai loro connazionali solo per un passaggio in macchina fino a Budapest. Tanti acconsentono, non fidandosi dei servizi offerti dalle Ong o dei pullman che attendono i profughi fuori la frontiera. Non si fidano soprattutto le donne che temono di essere rapite e messe in mezzo alla strada.

Paure non del tutto irreali visto che il cardinale Czerny, a fine viaggio, ha ricevuto informazioni sul fatto che ci sono stati tentativi in Polonia di precettare donne ucraine per inserirle in reti di prostituzione tra Olanda, Germania, Danimarca. Un dramma nel dramma che ha profondamente colpito il cardinale, da anni impegnato con il suo Dicastero nella lotta alla tratta e al traffico di esseri umani. “La tratta è una piaga che si nutre delle crisi”, ha commentato, giudicando “terribile” il fatto che vengano colpite donne che già soffrono in condizioni di solitudine e vulnerabilità. A causa della legge marziale che vieta agli uomini tra i 18 e i 60 anni di lasciare il Paese, circa l’80% dei quasi tre milioni di profughi fuggiti in questi venti giorni di guerra sono infatti di sesso femminile.

Giovani, anziane, mogli, madri: partono sole, coi loro figli e anche quelli di parenti e vicini di casa. Alla stazione di Keleti, a est di Budapest, prima tappa del viaggio di Czerny, si vedevano ragazze giovanissime con 7-8 bambini al seguito. Come Tatiana, 31 anni, così stanca nel volto da dimostrarne il doppio, partita dalla campagna vicino Kryvyi Rig insieme a figli, nipoti, fratellini. E a un piccolo gatto cieco che conservava nel cappuccio. Non sapeva dove andare: “Forse in Italia”, diceva al cardinale, che le ha detto: “Vieni, ti aspettiamo”.

Altre donne Czerny le ha incontrate in uno degli appuntamenti più significativi del viaggio, l’ultima giornata, in un centro sportivo trasformato in rifugio, alla periferia di Budapest. Era un gruppo di ucraine lì accolte che hanno voluto condividere con il porporato la loro storia, mostrandogli anche sul telefonino le immagini di case distrutte e dei genitori lasciati in Ucraina. Come i genitori di Natalia, del Donesk, che ha pianto guardando la foto della mamma e del papà anziani rimasti “senza cibo né medicine”: “Moriranno anche senza le bombe”. Sullo smartphone della ragazza anche foto delle soste in palestre in sacco a pelo, delle cantine dove i neonati erano messi a riparo sotto i tubi, di alberghi abbandonati con i tavoli dei ristoranti usati come letti. Oltre a Natalia, hanno raccontato la propria esperienza anche Marina che con la figlia disabile Nadja è scappata da Kharkiv prendendo un taxi fino al confine con la Moldavia, o Tamara che per la fretta ha dimenticato il cellulare a casa e non ha avuto per settimane contatti coi figli rimasti in un bunker.

Insieme a queste ombre, Czerny ha però potuto vedere in Ungheria anche tante luci. A cominciare dalla risposta della Chiesa all’emergenza profughi. Soprattutto a Beregove dove cattolici di rito latino, greco cattolici, romano-cattolici, protestanti, riformati si sono uniti “senza differenze” per dare una pronta risposta all’emergenza profughi. “Siamo tutti oggi il Buon Samaritano chiamato ad aiutare il prossimo”. Una Fratelli tutti che si realizza in terra ucraina.

Czerny ha apprezzato anche il sostegno del governo ungherese alle iniziative della Chiesa. “L’Ungheria accoglie tutti gli ucraini senza limitazioni”, ha detto il vice ministro Zsolt Semjén in un incontro riservato. Ma Czerny ha chiesto che tale atteggiamento sia permanente, non solo legato all’emergenza: “Le braccia siano sempre più aperte”.

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