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Siria. A Raqqa, ex capitale del califfato, sulle tracce di padre Dall'Oglio (GUARDA IL VIDEO)

Redazione La Stampa
Pubblicato il 09-04-2019

Il 29 luglio 2013 doveva incontrare i capi dell’Isis «Ci disse: se non torno date l’allarme».

La mattina di quel 29 luglio 2013 padre Paolo Dall’Oglio ha paura. L’appuntamento con Abu Lukhman è per le nove. Glielo hanno fissato il pomeriggio precedente i responsabili dell’Isis nei loro uffici ampi e luminosi del governatorato di Raqqa, dopo averlo rinviato una prima volta il 27 luglio. Ma Paolo adesso ritarda, indugia nervoso. Tanto che arriverà solo dopo le 11.30. «Se non esco dopo tre ore sappiate che sono stato rapito. Se dopo tre giorni non sapete nulla fate un comunicato pubblico», dice ai suoi contatti locali.

Dell’Isis in Siria in quei giorni si percepisce ancora poco. Siamo quasi un anno prima degli orrori commessi dai fanatici jihadisti con la presa di Mosul in Iraq. Paolo sa che il loro leader è un iracheno, un certo Abu Bakr al Baghdadi. Vorrebbe parlargli, tutto sommato è comprensibile per uno come lui che cerca di coordinarsi con il fronte dei nemici di Bashar Assad.

Messo in prospettiva sarebbe come andare a vedere Osama bin Laden anni prima dell’11 settembre 2001: si sapeva che era un estremista, però solo uno dei tanti nella galassia dei radicali islamici.

Tè zuccherato

Quelli dell’Isis gli dicono che Abu Lukhman è l’uomo giusto, si occupa degli affari politici nella nuova capitale dell’autoproclamato Califfato. «Però Paolo capisce subito che per lui potrebbe mettersi molto male. Nell’ufficio sono violenti, lo minacciano. Gli dicono che è un kafir, un miscredente, la sua vita non vale il prezzo della pallottola pronta per lui. Così tentenna. Non sa che fare, cammina nervosamente davanti alla casa di mio padre a due passi dal centro, dove per tre notti gli abbiamo dato una stanza. Parla a cascata nel suo perfetto arabo classico, chiede consigli, però poi non ci ascolta. Beve tè poco zuccherato in continuazione», ci racconta Abdel Sattar Ramadan, maestro di musica 37enne, con cui il religioso allora era in stretto contatto via Facebook.

E quasi con le stesse parole conferma da Istanbul per telefono Eyas Daes, il giornalista locale che aveva accompagnato padre Dall’Oglio attraverso le zone curde nel Nordest siriano, sino a Raqqa. «Paolo l’anno prima era stato espulso dal governo di Damasco, che lo accusava di attività sovversive assieme ai terroristi islamici. Ricordo il suo dispiacere per avere dovuto abbandonare Mar Musa, il monastero dedicato al dialogo interreligioso in mezzo al deserto, che aveva ricostruito con le sue mani vent’anni prima. Era rientrato in Siria dall’Iraq, alla frontiera non serve il visto delle autorità di Assad. Cercammo di dissuaderlo. “Non tornare da quelli dell’Isis, ti ammazzeranno, magari dopo averti torturato”, gli dicevamo. Lui però fu irremovibile. Così lo accompagnammo anche al secondo appuntamento. Non è più tornato e noi non abbiamo atteso tre giorni per denunciarlo al mondo. Per quello che sappiamo è sicuramente morto, probabilmente ucciso molto presto, nelle prime settimane, se non addirittura le prime ore del suo rapimento», dice a conferma di quasi tutte le fonti ragionevolmente affidabili che abbiamo consultato negli anni.

Di lui non c’è traccia credibile. Mentre abbondano i racconti della sua esecuzione. Nessun ostaggio occidentale è emerso, vivo o morto, neppure dalle macerie di Baghouz, l’ultima roccaforte territoriale del Califfato nella valle dell’Eufrate caduta due settimane fa. Il diario Così siamo tornati a visitare Raqqa sulle orme di padre Paolo Dall’Oglio. E lo abbiamo fatto leggendo anche le pagine del suo ultimo libro, Collera e Rivoluzione. Il diario appassionato, militante nel pieno senso della parola, di questo gesuita 65enne che non nasconde la sua piena adesione alle ragioni di chi si ribella alla dittatura, denuncia le torture orribili dei suoi aguzzini sui civili, sino a sostenere la violenza e l’uso della forza da parte delle brigate rivoluzionarie, anche quelle islamiche.

«Non ho bisogno di ripetere qui i motivi che fanno sì che io mi sia schierato dalla parte della rivoluzione, al punto di giustificare l’autodifesa armata di quel popolo tradito e abbandonato dall’opinione pubblica mondiale», scrive. Anche durante le sue ultime conferenze in Italia ci aveva detto di condividere appieno i sentimenti di chi «è pronto a morire per la libertà». E non a caso tutti i massimi dirigenti delle Chiese siriane locali, tradizionalmente legate a filo doppio al regime, lo hanno sempre considerato un nemico, un «agente straniero». Ancora pochi giorni fa padre Fathi Salibah Abdallah, figura centrale della basilica siriaca ortodossa di Qamishli, pur avendo seguito in passato alcuni seminari con Paolo Dall’Oglio a Mar Musa, lo accusava di «non aver capito il pericolo di stare con gli estremisti musulmani».

La battaglia finita

Punto di partenza a Raqqa è l’edificio ricostruito da due mesi del caffè Negative. Tutto attorno i segni della battaglia terminata con la sconfitta dell’Isis oltre un anno e mezzo fa sono dominanti. Non c’è elettricità, imperversano i generatori con l’inquinamento da gasolio e il fracasso continuo. L’acqua arriva a singhiozzo nel sistema idrico forato dalle bombe in più parti. «La città aveva 600 mila abitanti, ora sono meno di 250 mila. Il 90 % delle case è danneggiato», spiega il responsabile della Commissione per la ricostruzione, l’avvocato 55enne Abdullah al Arian, negli uffici poco distanti dal caffè.

Mentre lo intervistiamo, racconta spontaneamente di padre Paolo. «Il gesuita era un personaggio molto noto da noi. Tanti gruppi sunniti lo consideravano un leader da rispettare e un ambasciatore della rivoluzione nel mondo. Come uomo di Chiesa con una profonda conoscenza del nostro Paese poteva denunciare alla comunità internazionale le atrocità commesse da Assad assieme ai suoi alleati russi e iraniani. Io sono certo della sua morte. Il primo a raccontarmela una sera dell’estate 2015 è stato un mio vicino di casa, il 46enne Abu Sham Jarabulsi, che era un leader dell’Isis poi morto nei combattimenti di Meyidaine. Era professore di matematica, stavamo cenando assieme, mi disse che aveva visto il cadavere e non ho alcun motivo per non credergli. La stessa versione mi arrivò da Abu Ali al Sharei, giudice capo della corte islamica dell’Isis qui a Raqqa. Non ne fecero un video semplicemente per il fatto che l’Isis non era ancora organizzato. Fosse successo qualche mese più tardi, l’immagine della morte di Paolo Dall’Oglio sarebbe stata usata nella propaganda contro i “Crociati”. Entrambi mi dissero che Paolo venne arrestato negli uffici del governatorato da due militanti: Samer al Muteiran, che ora potrebbe trovarsi nelle celle curde, e Adnan Subhi al Arsan, che potrebbe essere scappato in Svezia».

E come venne ucciso? «Era un infedele. Fu picchiato duramente subito. Una versione parla di un prigioniero che lo avrebbe accoltellato nella loro cella poco dopo urlando che così lui sarebbe andato in paradiso per aver eliminato un miscredente. Un’altra riporta di un’esecuzione vera e propria a colpi d’arma da fuoco entro quel mese d’agosto».

Incontri con Al Nusra

Al Negative Paolo Dall’Oglio aveva organizzato i primi incontri, visto i responsabili locali di Al Nusra e Ahrar Al Shams, due organizzazioni islamiche che in quel momento contrastano l’estremismo dell’Isis. Il secondo giorno si sposta all’Apple, un caffè più in centro, proprio di fronte a una chiesa distrutta con la dinamite dai jihadisti. Ha paura di essere arrestato. Con il suo computer si muove ogni poche ore tra i due caffè, dove può utilizzare il wifi.

«Paolo ha tre obbiettivi. Vorrebbe esercitare un’azione moderatrice tra i gruppi islamici per creare un fronte comune. Continua a ripetere che senza l’unità interna la rivoluzione è destinata a fallire. In secondo luogo lavora per facilitare il dialogo tra popolazione cristiana e musulmani in rivolta. Sa che le gerarchie ecclesiastiche locali lo odiano. Lo vorrebbero espulso o morto. Ma spera che i fedeli cristiani possano stare dalla sua parte. Il terzo obbiettivo è la liberazione di un paio di attivisti islamici moderati che l’Isis tiene in carcere. Purtroppo non ottiene alcun risultato», continua Abdel Sattar.

Le strade percorse da Paolo in città sono costellate di rovine e macerie. Anche le celle sotterranee, dove probabilmente fu chiuso, non esistono più. Della sua possibile sepoltura parla invece il 40enne Yasser Khamis, responsabile della ricerca delle fosse comuni per la municipalità.

«Dal 9 gennaio 2018 a oggi abbiamo scavato tre grandi fosse comuni dell’Isis. Le vittime stimate nella regione sono oltre7mila. Sinora abbiamo trovato 4.030 cadaveri, di cui 570 identificati». E Paolo? «È tra gli ostaggi stranieri che stiamo cercando. Potrebbe trovarsi nella fossa comune di Fheha. I capi di Isis che abbiamo catturato ci dicono che là venivano buttati i resti di chi moriva in carcere. Ma va verificato».


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Lorenzo Cremonesi - Corriere della Sera

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