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Quello che raccontano gli alberi di Auschwitz

Raul Gabriel, Oswiecim Raul Gabriel - Avvenire
Pubblicato il 27-01-2019

Oswiecim è un paese tranquillo. Con un lungo fiume che non ha nulla da invidiare ai più bei parchi naturalistici che abbia mai visto. Cercare un Oswiecim fuori rotta, non convenzionale, è praticamente impossibile perché qui sembra funzionare veramente tutto in armonia e con una qualità di vita importante. Eppure, la sera, abbandonate le autostrade polacche e imboccate le vie di campagna che precedono il luogo, ho la sensazione che ogni rotonda termini nel nulla. Un buio sordo che attutisce e nasconde ogni cosa. Camminare all’alba lungo il parco che costeggia il fiume Sola è una esperienza imperdibile. La natura appare incontaminata e fertile, abitata da una fauna selvatica per nulla intimorita dalla vicinanza dell’uomo. Ho avuto la fortuna di giornate cristalline, che rendono i colori brillanti, le forme evidenti. Eppure qualcosa non torna, come una dissonanza insistente. I fiori e le piante non convincono fino in fondo di questo perfetto ritratto da Eden. Sembrano impregnate di una omertà fatale e definitiva. A ben pensarci ogni cosa ti avverte. Non lo sai ma hai già introiettato l’indefinibile. Una risonanza lontana della mostruosità senza limiti che impregna l’aria per l’eternità. Prima ancora di entrare ad Auschwitz, nome tedesco che il delirio nazista aveva recuperato dalla precedente denominazione austro-ungarica del paese, ho cominciato una curiosa lotta con le parole. Quel posto è come una compressione dell’universo. Dove il sussulto della scarnificazione del corpo e dell’anima di milioni di persone ha generato come un buco nero.

Le mie parole, i miei pensieri hanno cominciato a distorcersi, a dichiararsi inutili, come inutile appare ogni cosa in quel luogo a un certo punto. Suoni, colori, voci, vengono attraversati da una frequenza non udibile che torce ogni tuo ragionamento come un argano colossale. Intollerabile. Inaccettabile. Abnorme. Non basta. Non significa nulla. Ogni termine si dissolve nel momento in cui lo pronunci. Ecco. La sola aria di Oswiecim, che trasuda Auschwitz anche a distanza, sgretola ogni prodotto del tuo cervello, ogni rifinitura linguistica, ogni sofismo e ogni riflessione. Forse l’unica dimensione possibile è la tragica contemplazione di una voragine che ha inghiottito l’umanità. Non c’è nulla dopo Auschwitz. Eppure, mi dico, la vita scorre tranquilla. Regolare. Con flussi enormi di turismo e indotti che un luogo come Oswiecim non avrebbe mai potuto immaginare. Forse fa anche parte della prosecuzione della vita. Ma come artista mi sento sdoganato dalle ragionevolezze e dico che intorno a un luogo come Auschwitz dovrebbe esserci un diametro di almeno 50 km di deserto.

Per andare a Auschwitz dovresti attraversare il deserto. Dovresti farti deserto. Dovresti avere un tempo e uno spazio di spoliazione dalla vita che ti è concessa e che qui è stata negata. Un rabbino sopravvissuto, in una delle interviste proiettate in continuo in uno dei padiglioni nazionali dei blocchi all’interno del campo 1, parla del dialogo avuto all’ombra del fervente lavoro dei crematori e il gelo polacco. Un dialogo surreale con un altro martire sul Salmo 27. La questione è perchè nel versetto 14 sia scritto “Spera nel Signore due volte e non una”. Con una semplicità tipica delle intuizioni geniali e pragmatiche la risposta è che dopo la prima volta avrai certamente uno scoramento derivato dall’apocalisse dello spirito e della carne, e quindi è necessaria la seconda volta per ricordartelo. Personalmente credo che anche un milione di volte sarebbe nulla a fronte del ripetersi dell’orrore che deve essere sembrato inesauribile. Di fronte alla indefinibile, incomprensibile indifferenza degli aguzzini. Non sono predisposto alle effusioni. Eppure quella sterminata umanità trasformata in carne da macello, che comunque è ancora lì e ti parla continuamente mentre attraversi i bellissimi viali di betulle che incorniciano i mostri, mi ha dato la necessità di abbracciarla, di una carezza, urgente quanto inutile. Ho potuto accarezzare un corpo vivo e pulsante. Ma erano gli elenchi sterminati dei morti. Una bibbia delle bibbie dell’apocalisse senza fondo.

La presenza di quello che è successo per sempre trasfigura anche quegli elenchi, e se ci appoggi il viso, senti il corpo di tutti i corpi, con il suo peso di pietà chiesta e negata, con le sue lacrime inascoltate, con lo scempio delle vite, dell’anima e del corpo. Le questioni storiche, le questioni filosofiche, le questioni sociali, arretrano sullo sfondo come un accessorio inutile, pure inevitabile. In primo piano rimane una sorta di vuoto mentale, un compianto assente, una assenza di fiato che non torna. La pietà è ancora lì a reclamarsi. Non c’è riscatto. Solo un debito inestinguibile. Auschwitz, a dispetto dei nazisti che lo hanno progettato per distruggere, è un corpo pulsante, presente, vibrante. Un corpo discreto e violento che ti invade per non lasciarti più. Al blocco 11, detto il blocco della morte, se la empatia ha fatto minimamente breccia, la discesa è allucinante. Anche a te che scendi per guardare senza pericolo in una luminosa mattina di ottobre, sembra di scendere verso il patibolo. Un patibolo non immediato. È un patibolo distillato in tappe progressive di disumanizzazione in cui ogni riferimento possibile ti viene strappato dall’anima e dal corpo. Le celle di meno di un metro quadro con un ingresso dal basso, completamente buie sono la visualizzazione della sepoltura da vivi. E continua il mio vuoto mentale, il vuoto dello spirito. Qui anche gli interruttori della luce sono terrificanti. Ogni singolo mattone è complice. Nel corridoio a fianco incontri il calvario di padre Kolbe. Il suo gesto è simbolo della resistenza estrema all’annientamento, che io voglio credere, abbia avuto tanti altri, meno conosciuti protagonisti. Anche questo momento di riscatto dell’uomo non ha un sapore dolce. Ha una durezza indescrivibile, che solo una fede o una testa dura e capace di sostenere il buio assoluto della speranza può sopportare. Il primo giorno di visita mi lascia il desiderio di tornare, come a trovare dei cari. La nuova alba sul lungo fiume mi conferma le sensazioni del giorno prima. Tutto torna.

A Oswiecim ti trovi in un luogo così speciale che ogni cosa vive della sua tremenda consapevolezza. Non evidente, ma estremamente presente. Subito dopo, la nuova visita. Prima che i gruppi, non sempre attenti, invadano il campo. Provo una strana intimità, ora che non ci sono suoni e distrazioni. E rivedo tutto come se fosse ancora nuovo, ancora il tentativo di un dialogo impossibile, di una vicinanza che forse è solo nella mia testa. O forse no. Vorrei stare un mese a Oswiecim e tornare qui ogni singolo giorno e sono certo che nulla sarebbe mai uguale. Auschwitz è sfuggito ai suoi stessi creatori. Dove la umanità doveva essere annientata, la umanità, a un prezzo atroce, ha impregnato le pietre, le piante, i sassi, le valvole infami delle recinzioni, ogni singolo edificio, ogni singolo gancio. A 1.600 km di distanza Auschwitz continua a essere presente. Eppure è come se la tentazione del quotidiano faccia di tutto per rendertelo estraneo, come una fuga dal reale, come una parentesi da relegare alle idee. Questo è lo stesso presupposto del crimine dell’indifferenza che ha visto complice il mondo. La negazione dell’umanità che fa differenti gli uomini dai complici. Se le trappole della mente sono molteplici per ingannare e generare anestesia, vi è un solo antidoto. L’incontro vivo. E non ricordo di aver incontrato nulla di così dolorosamente vivo, così commovente, così fisico come i muri del campo e le piante di Oswiecim. (Avvenire).


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