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Quella medaglia postuma, Martin Luther King a 50 anni dalla morte

Redazione
Pubblicato il 11-05-2018

King vinse il Nobel per la pace nel 1964

di Gianni Riotta 

Il reverendo Martin Luther King, «Dottor King» per i suoi fedeli, incontrò Malcolm X solo una volta, a Washington, durante il dibattito parlamentare per la legge sui diritti civili 1964. «Ciao, Malcolm, mi fa piacere vederti» disse King, «Altrettanto» rispose cortese Malcolm X, «io mi lancio ora nel cuore della battaglia per i diritti». I due leader furono subito separati dai reporter. Caddero presto vittime di attentati, entrambi a 39 anni, Malcolm X nel 1965, ucciso da estremisti islamici, il reverendo King mezzo secolo fa, 4 aprile 1968, colpito dal latitante razzista James Earl Ray. In entrambi i delitti gli storici sospettano un ruolo, o almeno complicità e omertà, dell’Fbi, guidato dal torbido J. Edgar Hoover.

King vinse il Nobel per la pace nel 1964 per il movimento pacifista afroamericano, ricevette, postuma, la Medal of Freedom, massima onorificenza civile Usa, ogni terzo lunedì di gennaio gli Stati Uniti si fermano, festa nazionale in suo nome. Malcolm X, almeno fino al film di Spike Lee del 1992, passa per un disperato ultras radicale, il romantico perdente dell’Autobiografia redatta da Alex Haley (Einaudi).

Il tempo della delusione

Cinquant’anni dopo, la Storia ricorda il fugace incontro tra i due leader, perché negli ultimi mesi di vita Malcolm X si stacca dal nazionalismo codino della Nation of Islam e, dopo un pellegrinaggio alla Mecca, predica una possibile coalizione bianchi-neri. In parallelo, il nobile pacifismo del reverendo King, celebrato nel discorso «Ho un sogno…» alla Marcia su Washington 1963, si stempera in delusione.

L’America integra le scuole con la sentenza della Corte Suprema Brown versus Board of Education del 1954 (Linda Brown, la bambina al centro del caso, è scomparsa lo scorso 27 marzo), apre dopo due secoli di discriminazione il voto alle minoranze con il Voting Rights Act del 1965 e chiude con l’apartheid razzista seguito alla Guerra civile, grazie al Civil Rights Act del 1964. Ora bianchi e neri possono usare gli stessi bagni, ristoranti, alberghi, e nessuno sceriffo impedirà a un nero di votare, sghignazzando «Recitami a memoria la Costituzione…». Ma King comprende che, dopo queste concessioni, la maggioranza bianca, e il presidente democratico Johnson, dicono basta.

La «vendetta dei bianchi»

La sua campagna per i diritti lascia allora il Sud ex schiavista, piantagioni e povertà, mirando dritto al Nord, dove i neri emigrano da tempo a cercar lavoro nell’industria. Là prende atto con lucidità: «L’America dei bianchi non è psicologicamente preparata all’uguaglianza reale», eguali condizioni economiche, di vita, in ufficio e famiglia. Scrive Eddie Glaude, preside degli studi afroamericani a Princeton: «La brutalità del Sud e l’ipocrisia del Paese intero portano King a capire che l’uguaglianza razziale, intesa come impresa umanitaria, distorce i principi della democrazia e sfigura carattere e moralità in chi si ostina a credere alla menzogna».

È questo, ultimo, King che si schiera infine contro la guerra in Vietnam, il King che sfida imprese e sindacato sulla disoccupazione. «C’è in corso una vendetta dei bianchi» scrive amaro nel 1966, e sprofonda in una depressione psicologica, che lo porterà a non riuscire neppure ad alzarsi dal letto, dopo aver visto una folla di razzisti rompere le ossa di adolescenti neri, fuori da un liceo in Mississippi. Due anni prima di morire, King è detestato nei sondaggi dal 63% dei bianchi, che – osserva lo scrittore nero James Baldwin – vedono «i diritti civili come traguardo, mentre sono solo punto di partenza». Hoover scatena l’Fbi a perseguitarlo, manda lettere anonime alla moglie, Coretta Scott, con le prove dell’infedeltà del marito, lo istiga «Ucciditi, King, se non vuoi scandali». Il Klan apre una stagione di terrorismo, a Forrest County, Mississippi, e Bogalosa, Louisiana, dove cadono gli attivisti Vernon Dahmer e Clarence Triggs. Il sindaco di Chicago Daley, democratico, vieta a King di manifestare in città contro la povertà, e il Congresso gli boccia la legge per integrare il mercato delle case e gli affitti.

Negli ultimi mesi, Martin Luther King pondera su vittorie e sconfitte, cosciente che una lunga, nuova, campagna inizia. Vuol integrare bianchi e neri poveri, scuotere il razzismo ipocrita di chi tollera i diritti, purché i neri se ne stiano lontani. Non ne vedrà l’esito, stroncato a Memphis con una pallottola nella colonna vertebrale, sparata dall’evaso Ray, che la famiglia King ritiene ancora innocente, copertura del complotto Fbi.

Uguaglianza vera

Nel 1968 l’America vede il Vietnam all’offensiva in febbraio, King cade in aprile, le città bruciano in rivolta, 40 morti e 3000 feriti, i disordini più sanguinosi dal 1863, il senatore Robert Kennedy – che cita Eschilo in ricordo di King la notte della morte, a Indianapolis – ucciso in giugno, la battaglia alla Convenzione democratica di Chicago in agosto, 28.000 poliziotti contro 10.000 militanti, in diretta mondiale, il repubblicano Nixon eletto a novembre.

Neppure Barack Obama, primo afroamericano alla Casa per due secoli e mezzo solo Bianca, sutura le ferite. Il presidente Reagan, come tanti conservatori, invocava «la giustizia cieca» di King, ma alla sua morte – governatore della California – denunciava «chi ha rotto per primo la legge», accusando tra le righe i neri, un risentimento sordo attivo ancora nel voto 2016. L’America si china oggi alla pozza di sangue di Martin Luther King, onorarne la memoria è esercizio ubiquo nelle scuole: onorarne il lascito ultimo, giustizia per tutti e tutte, uguaglianza vera, non di carta, è il compito del prossimo mezzo secolo. «Free at last», libero finalmente, recita il motto sulla pietra tombale di M. L. King ad Atlanta, Georgia, ancora un auspicio, non una meta.


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