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Perché voglio costruire un monastero in Siria

Redazione
Pubblicato il 21-10-2019

Il sogno di pace nella terra martoriata dalla guerra

La storia di questo articolo inizia da un sapone al profumo d’oliva, con un arabesque raffinato intagliato sulla superficie, che una giovane taxista mi fa scivolare tra le mani a Roma, sulla strada per Stazione Termini. «Lo tenga, è prezioso. Cerchi suor Marta, visto che sta andando a Milano. Ho appena accompagnato anche lei», mi dice. È commossa. Ci scambiamo i recapiti. Due giorni dopo un WhatsApp audio da mittente sconosciuto m’incuriosisce. Una voce familiare, quella di Hope, amica svizzera che non sentivo da tempo, mi comunica che ora vive in Libano e che suor Marta è passata da lei il giorno prima. «Quella» suor Marta. Che stupore! «Chiama suor Marta – mi sprona – ne sarai felice». Ce n’è abbastanza per seguire il consiglio.

Suor Marta Luisa Fagnani è una monaca trappista, superiora di Nostra Signora Fonte della Pace, un germoglio di monastero nel villaggio rurale di Azer, in provincia di Homs, in Siria, al confine con il Libano del Nord. Accanto due villaggi cristiani, tutt’intorno villaggi musulmani, sciiti e sunniti. Con lei una comunità di cinque sorelle.

Non è facile mettersi in contatto. Iniziamo un «dialogo telematico» che procede a singhiozzo, quando può ritagliarsi un po’ di tempo e quando la tecnologia ci assiste. È la Siria di oggi – a tratti pacificata ma con i carboni ardenti sotto la cenere – che anche a distanza fa intuire le sue difficoltà. Cosa ci fanno un pugno di suore di clausura in territorio musulmano, in tempi di tregua precaria e di opposti estremismi? «Siamo qui dal 2005 – spiega suor Marta – dopo che il nostro Ordine si è sentito interpellato dalla morte dei sette fratelli, rapiti e uccisi a Tibhirine, in Algeria (beatificati l’8 dicembre scorso, ndr). Volevamo raccogliere la loro eredità, testimoniando la Regola di San Benedetto in un contesto in cui i cristiani sono minoranza». Quattordici anni, sufficienti a vivere in prima persona la parabola di dolore della Siria: «Al nostro arrivo era un Paese in piena crescita, con contraddizioni, ma anche ricchezze culturali, umane, spirituali. C’era tolleranza. Ricordo un anno in cui la Pasqua cristiana coincideva con la festa di Ramadan: una donna velata, vedendoci uscire dalla chiesa, ci fece gli auguri, che noi ricambiammo». Una capacità di stare insieme nella diversità che la guerra ha cercato di spezzare in ogni modo: «Ma non ci è mai riuscita del tutto – continua suor Marta – neppure nei momenti peggiori del conflitto. Ricordo il giorno in cui siamo rimaste bloccate sull’autostrada tra Aleppo e Homs. Si sparava dietro e di fronte a noi. Non sapevamo che fare. Un camionista si è avvicinato e ci ha detto di non preoccuparci. “Quando si ripartirà restate in mezzo a noi”. E, prima di andarsene, ci ha messo in grembo delle arance».

Una guerra manipolata

In Occidente non è mai stato facile capire il conflitto siriano, tra informazioni montate ad arte e un arcipelago d’interessi in gioco. «La guerra ti insegna che bene e male non stanno mai da una parte sola e che non puoi mai giudicare dalle apparenze. Per molto tempo ci siamo limitate ad ascoltare le persone. Poi, quando abbiamo capito che da occidentali avevamo più possibilità di essere prese in considerazione, qualche volta abbiamo parlato al posto loro». Dal piccolo villaggio di Azer la visione dei fatti era, invece, chiarissima: «La guerra è stata orchestrata a tavolino e strumentalizzata da poteri regionali e internazionali, per interessi economici e geopolitici. Si è portata via molto: tante vite, da una parte e dall’altra, le infrastrutture, il lavoro, lo studio, la sanità, le ricchezze culturali e storiche, rubate e vendute, attraverso la Turchia, a collezionisti privati e musei occidentali. Si è portata via il desiderio di cambiamento e di giustizia che animava i siriani, costringendoli a una radicalizzazione, estranea alla loro indole. Ma ciò che è peggio, s’è portata via l’innocenza dei bambini e la speranza nel futuro». Un’altra primavera araba sfiorita anzitempo, «perché a nessuno interessano i diritti dei popoli, altrimenti, invece di riempire la Siria di armi, si sarebbe lavorato per far crescere la coscienza, la cultura, la formazione. La stampa occidentale in quel frangente è stata un disastro, ha contribuito a schierare tutto e tutti. Ciò ha fatto perdere alla gente la fiducia nella tradizione di democrazia, giustizia e libertà dell’Occidente». La Chiesa siriana è stata accusata di essere compiacente verso il dittatore. Un’accusa che suor Marta non manda giù. «È vero che i cristiani sono protetti dallo Stato siriano, come del resto tutte le altre confessioni religiose. È vero anche che proteggere le minoranze è una strategia per acquisire consensi. So persino che spesso ci si chiede come possano i cristiani accettare di “vivere tranquilli” a prezzo di tacere su palesi ingiustizie. In proposito ho qualche risposta: la realtà di una situazione si cambia dal di dentro, non con le armi, ma facendo crescere le persone. Anche le comunità cristiane, minoranze che da poco hanno ottenuto il rispetto pieno dei propri diritti, non sono ancora mature, troppo schiacciate sulla sopravvivenza. Ma la domanda dirimente è un’altra: qual era l’alternativa al governo che i cristiani avrebbero dovuto sostenere? Sarebbe stato razionale sottomettersi a uno Stato islamico, in buona parte rifiutato dagli stessi musulmani? E, infine, siamo sicuri noi, Paesi occidentali, di essere liberi da ogni dittatura di pensiero e di azione?».

Dateci un monastero e capovolgeremo il mondo

È lucida, suor Marta, risoluta e senza paura. Per anni, con le consorelle, ha passato le notti in dormiveglia, attenta ai movimenti dei mercenari che entravano dal Libano. Ha vissuto lo sconforto al pensiero che i jihadisti stavano avanzando e che la Siria non ce l’avrebbe fatta. In un angolo della stanza, un bagaglio con l’essenziale: qualche vestito, le carte del monastero e il calice dell’eucarestia di Tibhirine. Da un lato la tensione e la fatica. Dall’altro l’esempio dei fratelli di Algeria. La guerra è stata un passaggio profondo alla radice della propria vocazione. «Alla fine siamo potute rimanere». In tutti questi anni, chicco dopo chicco, come le formiche, le monache di Azer hanno costruito piccoli trulli con le pietre del luogo per accogliere chiunque cercasse pace e hanno creato gli orti. Da allora la preghiera, il lavoro e l’accoglienza scandiscono la giornata secondo la Regola benedettina. La gente accorre sempre più numerosa dalle suore che hanno piantato un monastero di pietra e di spirito nel deserto della guerra, adornandolo con fiori ed erbe, davanti ai quali i giovani sposi cristiani e musulmani vengono a scattarsi le foto di nozze. Hanno aperto i laboratori di artigianato, da cui deriva il sapone ricevuto in dono dalla taxista. Hanno offerto lavoro alle vedove di guerra e condiviso il pane. «Oggi mi sento pienamente siriana» dice suor Marta, apprezzando il gusto di ogni piccolo segno: la mamma musulmana che le chiede una benedizione per la figlia, il panettiere con le forme contate che le offre il pane «perché quelle di Azer sono le nostre suore», il bambino di 4 anni che assiste rapito alla compieta e quasi piange di nostalgia quando finisce il Salve Regina. Lo spirito passa dove meno te ne accorgi, si nutre di piccoli gesti, di semplici parole.

Le suore vorrebbero costruire, ora che la situazione si va normalizzando, un vero monastero: «Mi dicono che siamo folli, in una tale situazione di bisogno materiale. Però se vivi l’esperienza monastica sai che là dove più nascono domande sulla vita e sulla morte, quello è il posto giusto per un monastero. Possiamo percepire in questo luogo, tra la nostra gente, una sete spirituale profonda. C’è bisogno di spazi per accogliere questa sete e ricostrui­re le persone».

Per suor Marta il problema non sono i soldi: «Le risorse non mancano nel mondo. Pensate a quanto denaro è stato speso qui per distruggere. Anche come Chiesa dobbiamo evitare una mentalità pauperistica, perché il vero problema è preoccuparci di crescere e far crescere nella consapevolezza, nella coscienza. I cristiani devono essere gente che pensa e che aiuta a pensare. E in questa scuola di pensiero e di vita, un monastero trova il suo giusto posto. Abbiamo chiesto al Signore un segno: se vorrà troveremo i soldi, altrimenti non costruiremo il monastero. Tuttavia qualcosa si sta già muovendo. Contrariamente a quanto si crede, qui la gente lo vuole. È un segno di speranza».

Chiunque abbia messo piede in Siria in questi anni voleva qualcosa per sé, risorse, potere, vendetta, sotto la copertura di un conflitto di religione. Il piccolo convento di pietre e di spirito è un ribaltamento, il segno che ancora tutto è possibile.

Il sacrificio dei fratelli di Tibhirine, la guerra, il dolore dei siriani hanno lasciato segni profondi nel cammino spirituale e umano di suor Marta e delle sue sorelle: «Ho imparato molto da questo popolo. Ora guardo le cose con più consapevolezza e allo stesso tempo con più speranza. Qui Dio non è una presenza astratta e privata, ma vive nella vita di tutti, cristiani e musulmani, così che nessuno è dissociato, ma in unità con ciò in cui crede. È una grazia».

Si può compiere la propria missione ovunque, seguendo la chiamata di Dio, eppure questi luoghi risuonano d’echi profondi: «Trovo unica la possibilità di camminare su una terra santa, dove ha mosso i primi passi il cristianesimo. Che effetto incredibile calpestare le strade romane dove Pietro e Paolo sono passati. Che emozione indescrivibile vedere i fiumi Tigri ed Eufrate stendersi sulla pianura che ha visto nascere la civiltà. C’è uno spessore di storia, profana e sacra, che ti mette in un orizzonte di un’ampiezza indicibile. E allo stesso tempo c’è la nostra “piccola storia” quotidiana, quella di una comunità di sei suore, che condivide questo tempo di prova e di speranza con la gente che ha attorno e che, per farlo, ha solo una strada: scegliere Cristo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Sempre».

Giulia Cananzi - Il Messaggero di Sant'Antonio

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