Ogni giorno un bambino yemenita muore sotto le bombe della guerra dimenticata
Save the Children lancia una petizione per lo stop alla vendita di armi usate nei raid aerei
La più dimenticata in assoluto tra le primavere arabe fiorite con sorti alterne in un passato che sembra oggi lontanissimo è quella yemenita. Ben pochi ricordano probabilmente che nel 2011 le piazze di Sana’a si accesero di speranze democratiche esattamente come quelle del Cairo, Tunisi, Bengasi, Aleppo, Manama.
Eppure quell’anno, a riconoscimento dello sforzo titanico dei ragazzi yemeniti, i più poveri tra i poveri, il premio Nobel per la Pace andò ad una di loro, un’attivista, Tawakkol Karman. Meteore della Storia e della memoria. La gloria del decaduto Paese della regina di Saba sarebbe durata ancor meno della sua visibilità mediatica: il 22 marzo 2015, nello Yemen uscito dai radar, comincia una sanguinaria guerra civile tra la minoranza Houti, sostenuta dall’Iran, e il governo centrale, che dopo la deposizione del trentennale despota Saleh è guidato da Hadi e gode dell’appoggio politico e miliare di Riad.
Quella guerra, dagli esiti altalenanti e i capovolgimenti ripetuti (Saleh è morto nel 2017 dopo aver disertato, gli Houti hanno preso Sana’a), dura ancora oggi mentre i tentativi dell’Onu di negoziare una tregua quantomeno umanitaria s’infrangono con la determinazione delle potenze regionali risolute al redde rationem per procura sulla pelle dello Yemen.
A quattro anni dall’inizio del conflitto meno seguito dei tempi moderni (in confronto la pur reietta Siria sembra costante breaking news) Save the Children, una delle Ong sempre presenti sul terreno, traccia un bilancio che brucia: oltre 19 mila raid aerei hanno raso al suolo scuole, ospedali e infrastrutture (ne crolla in media uno ogni 2 ore); 1,5 milioni di minori sono stati costretti a fuggire con o senza le famiglie e 10 milioni non hanno accesso a cure mediche; ogni giorno almeno un bambino viene ucciso dalle bombe che, in barba alle polemiche, i governi di mezzo mondo continuano a vendere alla coalizione a guida saudita; uno su 3 non va a scuola.
Non è un mistero che i morti in cifre siano distanti anche quando sono vicinissimi. Le cifre scivolano sulle coscienze come l’acqua, alla fine ci si fa l’abitudine. Almeno fino a quando un barcone non ci ricorda che la guerra è non poi così lontana. È dietro l’angolo invece , così come lo è la famiglia che - racconta Medici senza Frontiere - nei giorni scorsi, nella città di Taiz, ha guidato tre ore attraversando la linea del fronte per portare in ospedale un bambino di due anni ferito al volto da una scheggia dopo l’esplosione di una bomba vicino casa.
Fortunati, quasi: la maggior parte non arriva neppure all’ospedale. Mentre sul calendario corre via veloce il quarto anniversario della nostra indifferenza e mentre naufragano uno dopo l’altro i tentativi di tregua mediati dall’Onu, Save the Children chiede ai governi occidentali un passo indietro, uno stop alla vendita di armi allo Yemen insanguinato con una petizione, “Stop alla guerra sui bambini" (clicca qui per firmare) , che solo in Italia ha già raccolto oltre 54 mila firme.
Dal 2005 ad oggi le bombe straniere hanno ucciso o gravemente ferito quasi 6500 bambini. Sì, perché i raid aerei vengono spesso condotti su aree altamente popolate con tutto ciò che comporta. Come avvenuto il 10 marzo scorso, quando un bombardamento ha colpito cinque abitazioni provocando la morte di almeno 10 bambini, come avvenuto a Samer, 8 anni, ferito in un villaggio vicino a Hodeidah mentre tornava a casa con suo nonno.
Troppi bambini sono nel vento. Le loro voci e quelle di chi resta nel limbo della vita senza vita rimbalzano oltre le poche immagini della tv attraverso Save the Children: «Quando camminiamo abbiamo paura; quando dormiamo abbiamo paura; quando giochiamo abbiamo paura. Non vogliamo più vivere dove c’è la guerra, non ce la facciamo più. Siamo innocenti e siamo bambini proprio come ogni altro bambino al mondo, come i vostri bambini. Vogliamo che ci si prenda cura di noi come per tutti gli altri bambini. Vogliamo la possibilità di studiare e andare a scuola. Vogliamo disegnare, mangiare, ridere, giocare, crescere e seguire i nostri sogni». Mentre vi raccontiamo questa storia alcuni dei protagonisti sono probabilmente già muti.
Francesca Paci - La Stampa
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