Libia, viaggio tra le macerie di Bengasi: distrutti gli edifici costruiti dall’Italia coloniale
Non c’è casa, edificio, o strada che non sia gravemente danneggiato. Dopo tre anni di battaglie il cuore della città è quasi tutto da ricostruire. La domanda che viene spontanea osservando le rovine del centro storico di Bengasi riguarda direttamente le operazioni militari dell’esercito di Khalifa Haftar in questo momento contro le milizie che difendono il governo di Fayez Sarraj a Tripoli.
«Se Haftar ha impiegato tre anni per scacciare le milizie islamiche asserragliate in soli tre quartieri in centro Bengasi causando enormi distruzioni e forse oltre 1.000 morti, quanto costerà la presa di Tripoli e quanto tempo durerà la guerra?». Viene naturale chiedersi di fronte alle macerie di quello che sino al 2014 fu uno dei centri storici più ricchi di imponenti edifici costruiti dall’Italia coloniale, secondo solo a quello di Tripoli. Giriamo per le vie dominati dallo stupore.
Non c’è casa, edificio, o strada che non sia gravemente danneggiato. Dopo tre anni di battaglie il cuore della città è quasi tutto da ricostruire. Qui eravamo arrivati da giornalisti verso il venti di febbraio del 2011, solo tre o quattro giorni dall’inizio dell’ondata di proteste contro la dittatura di Muammar Gheddafi.
Il capoluogo della Cirenaica si era imposto subito come il motore primo della «Primavera araba» in versione libica. Le truppe di Gheddafi se ne erano appena andate. La zona tra il tribunale principale, la banca centrale, la lussuosa Omar el Mukhtar street vero centro commerciale con le vie colonnate, gli edifici coperti di marmo, l’architettura italiana delle piazze costellate di fontane e giardini, avevano visto le prime manifestazioni di protesta, i graffiti, i canti e gli inni alla libertà.
Vicino all’imponente edificio del tribunale si erano insediati i portavoce dei ribelli, stavano la ventina di intellettuali che cercavano di dare una guida e un corpo dirigente alle rivolte spontanee. Tutto questo dopo i combattimenti durati dal 2014 al 2017 è adesso solo macerie, rovine, case bruciate, chiese devastate, negozi sventrati, traversine arrugginite e strade vuote.
In quelle battaglie contro i gruppi legati ai Fratelli Musulmani, jihadisti inveterati, persino estremisti violenti decisi a morire per la guerra santa, ma anche più semplicemente oppositori all’eventualità di un ritorno a un regime simile a quello di Gheddafi, Haftar aveva forgiato il suo nuovo esercito. Aiutato soprattutto dall’Egitto, era riuscito a soffocare lentamente il traffico di barche tra il tratto di costa di fronte ai quartieri contesi e la città di Misurata.
Ma la battaglia si era prolungata senza esclusione di colpi. Ora ci vorranno investimenti enormi e grandi sforzi per ricostruire la città. Tanti tra le milizie che si erano battute contro il suo esercito sono ora impegnate a Tripoli. La zona urbana della capitale è però molto più vasta che non Bengasi. Certo Haftar conta sulle simpatie che lui indubbiamente gode tra una parte degli abitanti di Tripoli per prendere alle spalle i suoi nemici.
Ma tutto ciò non toglie che proprio camminando per la Bengasi in rovine ci si debba preoccupare per il futuro di Tripoli. E’ da sperare che oggi non si precipiti in dinamiche belliche molto simili, ma in scala ancora più grave.
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Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera
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