Libia, ritorno a Derna: la città vecchia è un cumulo di macerie
Le strade sono un susseguirsi di crateri, non c’è un edificio privo di danni: la città è in ginocchio
DERNA (Cirenaica)- Il cuore della città vecchia è ridotto a cumuli di macerie. Siamo nell’ennesimo luogo di distruzione e morte, tra i tanti che ormai inquinano di rovine i paesaggi urbani in Libia e di larga parte del Medio Oriente. Macerie e assieme tante, infinite distese d’immondizie. Se il Paese intero è ridotto a una grande discarica, Derna, come del resto grandi nuclei quali Sirte, Bengasi e Tripoli, non fa eccezione.
Non si vede edificio che non sia stato gravemente danneggiato e tutto attorno giganteschi cumuli di pattumiera emanano i loro miasmi pestilenziali. Qualcuno talvolta cerca di appiccarvi il fuoco per liberarsene e allora la situazione diventa ancora peggiore, con i fumi chimici a rendere l’aria irrespirabile.
Liquami puzzolenti e carichi di veleni intanto scendono verso il Mediterraneo, ammorbano la costa, rendono inutilizzabili pozzi, ruscelli e falde freatiche. Tanti palazzi dovranno certamente essere demoliti prima di iniziare qualsiasi tipo di ricostruzione.
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Così, la città vecchia di Derna propone la stessa domanda che si era imposta solo pochi giorni fa visitando quella di Bengasi: se sono stati necessari tanto tempo, migliaia di vittime e distruzioni così gravi alle truppe di Khalifa Haftar per debellare le opposizioni nei due centri più importanti della Cirenaica, cosa sarà adesso di Tripoli, che è molto più grande e con un numero molto maggiore di abitanti, tra cui si nascondono milizie ben addestrate dalle battaglie degli ultimi anni e decise a resistere ad ogni prezzo?
Scriviamo mentre nella zona della capitale gli scontri armati si fanno più violenti, nonostante si sperasse in una tregua per il mese di Ramadan. Il numero dei morti dall’inizio dei combattimenti, il 4 aprile scorso, sfiora ormai quota 600. Venire a Derna serve così anche per capire le dinamiche dello scontro in atto. Gli ufficiali locali dell’intelligence di Haftar ci dicono che siamo i primi giornalisti occidentali a visitarla da più di due anni.
Nel gennaio 2019, dopo aver vinto a Bengasi e dopo oltre sette mesi di battaglie furiose, i soldati dell’auto proclamato Esercito Nazionale Libico agli ordini dell’uomo forte della Cirenaica riuscivano a penetrare gli ultimi bastioni della resistenza nel nido di cunicoli e postazioni di cecchini posti nei vecchi mercati coperti e presso la «Jammah al Atiqh» (la moschea antica), dove i radicali pro-Al Qaeda avevano i loro comandi.
Da allora a Derna impera una calma tesa, con i posti di blocco sempre pronti e le vie del centro deserte.«Qui non ci poteva venire nessuno straniero, l’intera zona era infestata da estremisti islamici, uomini di Al Qaeda e di Isis. Ora è bonificata, anche se ci sono ancora cellule nascoste e pronte a colpire», spiega il 35enne Anis Al Hassi.
«Gheddafi, dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, li mandava come volontari a morire assieme ai radicali sunniti in lotta contro gli americani in Iraq. Oggi tanti di loro sono con le milizie estremiste a Tripoli», aggiunge. Ma occorre distinguere tra realtà visibile sul campo e propaganda. Tra gli uomini di Haftar è consuetudine chiamare «terrorista islamico» qualsiasi oppositore. Però, a giudicare dalla vastità delle distruzioni, sia qui che a Bengasi sembra evidente che larghi strati di popolazione abbiano attivamente contribuito alla resistenza.
Tra i vicoli devastati incontriamo il settantenne Nasser Abdel Qader, psicologo dell’infanzia, specializzato nelle cure della sindrome di Down. «Sono potuto tornare a vedere i ruderi del mio studio e della mia casa solo due mesi fa. Sono inabitabili, totalmente bruciati. Nessuno ci aiuta a ricostruire, manca l’Onu, non ci sono organizzazioni umanitarie. Siamo abbandonati a noi stessi», lamenta. Scopriremo poi che due sue nipoti sono morti combattendo contro i soldati di Haftar.
«Non erano jihadisti», ci dicono. Una testimonianza sul fatto che gli oppositori appostati tra queste macerie non erano solo radicali della «guerra santa». Ma nessuno ne parla, gli uomini dell’intelligence di Haftar sono sempre vigili, pronti ad arrestare.
Sembra che nei carceri tra Derna e Bengasi siano chiusi oltre 3.000 prigionieri. Abbondano le voci (da verificare) di esecuzioni sommarie. E del resto incontriamo anche civili ben contenti che finalmente le milizie jihadiste siano state cacciate.
«O noi, o loro. Con gli estremisti islamici vale solo il linguaggio della forza. Non hanno alcun rispetto della democrazia e dei diritti civili. Con che autorità obbligavano mia moglie e le nostre figlie a mettersi il velo e restare in casa?», ci dice Ahmad, un ingegnere 65enne. Certo è che qui c’è stata battaglia dura, senza esclusione di colpi. Sembra che anche l’aviazione egiziana abbia dato manforte ad Haftar sin dal giugno 2018. Secondo Al Hassi, i nemici morti in sette mesi sarebbero circa 700. I caduti tra i soldati di Haftar «tra 800 e 1.000».
Evidenti nei muri si vedono i cunicoli scavati dalla resistenza per passare di casa in casa, sono ancora leggibili le scritte con i nomi dei morti da «martiri» con il fucile in mano. Non mancano i crateri di bombe d’aereo. Oltre il 20 per cento della zona urbana è inabitabile. Circa 20.000 dei suoi 80.000 abitanti originari sono morti, feriti o scappati.
Lorenzo Cremonesi - Corriere della Sera
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