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Il racconto dall'hotspot nell'isola di Lesbo

Mario Scelzo Mario Scelzo
Pubblicato il 30-07-2019

Un viaggio nel campo profughi di Lesbo, in Grecia, dove abbiamo incontrato una famiglia Afgana

Incontriamo Amhed (nome di fantasia ma storia vera) e la sua famiglia davanti alla sua tenda, appena fuori la recinzione del campo profughi di Moria, paesino nell’interno dell’isola greca di Lesbo. Sull’isola si calcola siano presenti 8/9mila profughi (anche se gli sbarchi continuano ed è difficile avere dei numeri aggiornati), un migliaio nel campo di Kara Tepe, gli altri in quello di Moria che ha una capienza ufficiale di 2.200 posti (in container) ma di fatto raggiunge le 5/6 mila unità grazie alle tende del “campo informale” sviluppatosi attorno alle recinzioni di quello ufficiale.

Tecnicamente, il campo di Moria è un Hot Spot, ovvero un centro di prima identificazione, dove le persone dovrebbero restare 2-3 giorni, la realtà però è diversa e molti dei migranti aspettano mesi se non anni nel campo prima di poter presentare la domanda di asilo politico.

Torniamo ad Amhed. Lo incontro insieme ad altri volontari della Comunità di Sant’Egidio (Dal 20 luglio e fino al 31 agosto, 150 volontari, a turni di dieci giorni, insieme ad un gruppo di mediatori culturali, stanno trascorrendo le loro vacanze insieme ai profughi. I volontari, tra cui il sottoscritto che ha preso parte al primo turno, stanno organizzando cene, feste e pranzi domenicali in parrocchia, gite, corsi di inglese e apriranno laboratori artistici, musicali, con attività di animazione per i bambini, le mamme, i giovani) e lo invitiamo per il giorno successivo al “Ristorante dell’amicizia”, lui accetta il nostro invito, e ci presenta la sua numerosa famiglia: i suoi genitori, due suoi fratelli di cui uno adolescente, la moglie ed il loro figlioletto di 2 anni e mezzo, tutti a dormire dentro la stessa tenda.


Ci fanno accomodare sulla rete capovolta di un letto con sopra una coperta, il loro “divano” e ci raccontano che vengono dall’Afghanistan, hanno fatto il viaggio a piedi e con mezzi di fortuna fino alla Turchia e poi hanno preso una barca piena di persone (ci hanno mostrato un breve video dello sbarco, tra bambini urlanti e grida concitate), per infine raggiungere le coste della Grecia. “Siamo venuti tutti via dall’Afghanistan, non è un paese dove si può vivere, abbiamo parenti in Europa… il viaggio in 7 è stato difficile, mio figlio è piccolo ed i miei genitori sono anziani, ma è stato importante essere insieme, quando ci sono stati momenti molto difficili essere insieme ci ha aiutato e ci ha dato coraggio”, ci racconta.

Sbarcati in Grecia, vengono raccolti dalla polizia locale e trasportati nel campo di Moria, qui viene effettuata una primissima identificazione e gli viene detto che potranno effettuare l’intervista (il colloquio attraverso cui richiedere l’asilo politico) a Settembre del 2020. Il figlio di Ahmed crescerà tra le tende, col caldo soffocante dell’estate (per fortuna l’isola è abbastanza ventilata) ed il rigido freddo dell’inverno, i loro pasti saranno quelli “standardizzati” del campo profughi, sempre se, come a volte accade, non avviene una rivolta tra le tende ed i gestori del campo decidono di fermare la distribuzione della cena.


Due brevi considerazioni finali. La prima, Amhed era felice di parlare con noi, non gli sembrava vero che qualcuno fosse lì per ascoltare la sua storia, si preoccupasse del suo futuro e di quello della sua famiglia. Ha preso parte nei giorni successivi alle nostre cene e ci ha ringraziato “per la gentilezza che avete avuto con me, per il cibo Wonderful e perché venite al campo dove noi viviamo”, ha addirittura voluto far conoscere ad alcuni di noi tramite una videochiamata i parenti in Austria ai quali spera di ricongiungersi in futuro. Nei giorni successivi, ci ha aiutato di fatto come “mediatore” con gli altri ospiti del campo profughi.

La seconda. A Lesbo ho visto con mano le storture di un sistema che non funziona. Burocrazia, trafficanti, regolamenti e cavilli, attese infinite, per una famiglia che al 99% vedrà tra un anno accolta la propria richiesta di asilo, oltretutto avendo dei parenti già residenti in Europa (grossomodo, a chi proviene da un paese in guerra viene accordato l’asilo, anche se le variabili sono infinite). Si potrebbe incentivare il programma dei Corridoi Umanitari, ormai un sistema rodato ed affidabile, si potrebbe ipotizzare la creazione di uffici di richiesta di asilo nei paesi di origine dei migranti, insomma si potrebbe ragionare e rendere il tutto più sicuro e gestibile. La questione migratoria presenta delle indubbie complessità, non lo nego, ma non si risolvono i problemi a colpi di slogan e propaganda.



Mi auguro che la nuova Commissione Europea possa operare un cambio di rotta sul tema della immigrazione, dando seguito a quanto affermato dalla neo Presidente Ursula Von der Leyen nel suo discorso di insediamento, durante il quale ha anche aperto ad una revisione del trattato di Dublino: “In mare c'è l'obbligo di salvare le vite. La Ue deve e può difendere questi valori. Dobbiamo salvare le vite ma non è sufficiente: dobbiamo lottare contro i trafficanti di esseri umani, assicurare le nostre frontiere esterne e tutelare il diritto asilo tramite corridoi umanitari. Dobbiamo modernizzare il nostro sistema di asilo europeo.

Possiamo avere confini esterni solo se diamo abbastanza aiuto agli stati membri che affrontano le maggiori pressioni, solo a causa di dove sono posizionati sulla carta geografica. Serve solidarietà: dobbiamo aiutarci gli uni con gli altri e serve un nuovo modo di condividere gli oneri legati all'immigrazione”.

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