#IAmMySong, il canto per la libertà delle ragazze di Kabul
Il governo vieta di suonare in pubblico, scoppia la rivolta sui social
La lettera arrivata dal provveditorato agli studi di Kabul ha fatto correre un brivido lungo la schiena a tutte le ragazze afghane. Il pensiero è tornato agli anni bui dell' emirato del mullah Omar, quando le pattuglie della polizia per il controllo della moralità perquisivano automobilisti e passanti alla ricerca di cassette musicali, da distruggere poi in roghi pubblici mentre i trasgressori rischiavano fino a quaranta scudisciate, o peggio. La musica era "peccato" e proibita. Venti anni dopo alle autorità scolastiche della capitale afghana è venuto in mente di vietare alle «bambine con più di dodici anni» di «cantare in eventi pubblici». Il motivo addotto era che l' attività canora «può distrarre dagli studi», ma i timori sono stati subito altri. E cioè un salto all' indietro destinato a spazzare via le conquiste sociali dell' Afghanistan liberato dai taleban.
I tempi sono diversi. Se è vero che gli studenti barbuti hanno rialzato la testa, spadroneggiano nelle campagne e nelle vallate remote, in città si è creata un' opinione pubblica moderna, che sa usare i social media. In meno di 24 ore è nato l' hashtag #IAmMySong, io sono la mia canzone, ed è stato inondato da migliaia di messaggi di protesta e video di giovani che cantavano la loro canzone preferita, comprese alcune tratte dai versi del poeta persiano Omar Kayyam, cantore del vino, dell' amore e della musica ai tempi del califfato abbaside. Tanto per ribadire che il diritto sacrosanto, per donne e uomini, a cantare e ballare non è frutto della "americanizzazione" ma fa parte della cultura islamica, e soprattutto della corrente sufi che tanto ha influito nell' età dell' oro dell' Afghanistan. Dopo due giorni, il ministero dell' Educazione ha annullato il divieto e spiegato che «non riflette le posizione e le politiche del governo». È stata anche aperta un' inchiesta interna per capire da dove è arrivata la brillante idea. «Un piccola vittoria per noi», ha commentato una delle attiviste della campagna #IAmMySong, Fariha Easar. Ma anche un segnale netto ai negoziatori che dovranno trovare un accordo con i taleban per mettere fine a vent' anni di guerra civile. Il timore di un compromesso al ribasso è molto forte. «Sappiamo bene come i taleban considerano i diritti delle donne - ha spiegato Easar -. Ricordo quando hanno chiuso tutte le scuole femminili ed escluso tutte dalla vita pubblica. Per questo la nostra battaglia andrà avanti».
I conservatori sono già all' offensiva e guardano storto il fiorire di scuole di canto e danze sufi. Tanto più quando a guidarle è una donna, come la 24enne Fahima Mirzaie, che ha fondato la sua lo scorso anno, e ha già una ventina di allieve e ha attirato l' attenzione di media locali e internazionali. Anche lei ha esultato per il ritiro del bando e spiegato come il sufismo «sia la mia via per arrivare alla verità». «Le donne che cantano fanno parte della nostra cultura», ha ribadito Shaharzad Akbar, presidente della Independent Human Rights Commission. Anche lei ha postato e si è esibita in un video per protesta: «Le donne hanno sempre cantato e suonato strumenti musicali, per esempio ai matrimoni, mi ricordo quando ero piccola nel villaggio, vedevo donne danzare». Le idee salafite estremiste non sono benvenute e le afghane intendono metterlo in chiaro. Gli Stati Uniti hanno insistito che nelle trattative fra il governo del presidente Ashraf Ghani e i taleban siano inseriti i diritti delle donne, da tutelare. Ma fra i 21 negoziatori governativi ci sono soltanto quattro donne. E nessuna fra gli islamisti. «Non penso che i taleban siano cambiati - ha avvertito una delle negoziatrici, Fawzia Koofi - ma se troveranno un modo di seguire le loro pratiche e idee in un società afghana molto più aperta, magari cambieranno col tempo». Washington però ha fretta. Nel patto preliminare firmato a Doha un anno fa, si è impegnata a ritirare le sue truppe entro il 30 aprile. Il nuovo presidente Joe Biden ha lanciato una stretta finale - soprannominata «moonshot», «grande balzo» - per raggiungere un accordo di pace in poche settimane. Si spera non a spese delle donne. (La Stampa)
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