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I nostri cooperanti tra missione e lavoro

Giulio Sensi Ansa - INGENITO
Pubblicato il 19-05-2020

Sono più di 22mila operatori e più di 24mila volontar

Sono più di 22mila operatori e più di 24mila volontari. Sono attivi in quasi tutti i Paesi del mondo e fanno sentire che l'Italia è vicina a chi ha bisogno di aiuto, non solo all'interno dei nostri confini. Un esercito disarmato e pacifico che sta crescendo ogni anno, nonostante le difficoltà e le frequenti polemiche del dibattito pubblico: le Organizzazioni non governative (Ong) portano avanti progetti di cooperazione e sono una piccola ma fondamentale parte delle politiche di aiuto allo sviluppo. Un ambito, questo, in cui a livello istituzionale l'Italia continua ad essere in fondo alle classifiche europee e mondiali, destinando a tale capitolo appena lo 0,2% del Pil, a fronte all'impegno dello 0,7% preso dalla Comunità Internazionale per raggiungere gli obiettivi dell'Agenda 2030.

Nelle ong il tema della sicurezza è uno dei primissimi affrontato. «Perché l'improvvisazione non è la regola» esordisce la portavoce di Aoi, l'Associazione delle ong italiane, Silvia Stilli. Da dieci anni dirige Arcs, l'ong dell'Arci e negli Anni 90 Stilli era già sul «fronte», operando in programmi di aiuto umanitario nei Balcani.

«Tutti i contesti sono complicati, non solo quelli di emergenza o post-bellici - aggiunge - e la preparazione è fondamentale. Le ong forniscono formazione seria anche sulla sicurezza, non solo ai cooperanti, ma anche ai volontari. In ogni Paese ci sono tutor fidati e competenti che accompagnano e inseriscono i nuovi arrivati in tutti i contesti. Il dialogo con ambasciate e consolati è costante e i codici di sicurezza condivisi. È un mestiere che necessita di molta preparazione». Che viene fornita anche ai giovani volontari dei progetti di Servizio Civile all'estero: più della metà di quelli attivi nel 2020 (537 giovani)si dedicano alle cure delle comunità locali.

Per arrivare a farlo questo mestiere ci sono corsi di laurea, master e percorsi di volontariato internazionale. L'esperienza sul campo è importante e le ong continuano ad assumere. «I trend che osserviamo -racconta Elias Gerovasi progettista di Mani Tese e curatore del sito Open Cooperazione che raccoglie i dati su tutto questo mondo - ci parlano di una crescita del settore. Negli ultimi tre anni c'è stato un aumento medio del 10% dei posti di lavoro».

Se nel 2015 Open Cooperazione registrava entrate per 679 milioni di euro, nel 2018 la cifra raccolta sui bilanci consolidati supera i 900 milioni. «Frutto di un lavoro di qualità - aggiunge Gerovasi - che conta sempre di più anche su partnership con i privati, in particolare le aziende, e su un aumentato bisogno di intervento in contesti di emergenza, in particolare con fondi europei come quelli "Echo" su cui lavorano diverse organizzazioni italiane».

Di vacche grasse le ong non ne hanno mai viste, ma i tempi in cui si andava avanti raccogliendo le buste a favore dei missionari sono ormai lontani. Nel mezzo ci sono state due leggi: la prima nel 1987 e la seconda nel 2014 che ha modernizzato il sistema e creato la nuova Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS).

«Molte attese - commenta Raffaele K. Salinari, portavoce del Cini, il coordinamento delle organizzazioni internazionali che operano in Italia come Action Aid, Cbm, Save The Children, Vis, Plan, WWF - ma un po' di delusione perché anche questa riforma è rimasta incompiuta. Un buon impianto che però non è stato attivato almeno nei livelli nodali e strategici. Il Consiglio nazionale della Cooperazione allo sviluppo non si riunisce da anni, manca una reale volontà politica, l'Agenzia non ha una logistica attrezzata e la dotazione finanziaria dell'Italia è ancora scarsa».

Le risorse pubbliche sono importanti, ma non sono le sole: quasi tutte le ong hanno progettisti esperti che dialogano con Ministeri e Commissione Europea, uffici raccolta fondi strutturati che curano le relazioni con migliaia di donatori, bilanci pubblici e certificati. Perché sono più di un milione gli italiani che ogni anno rinnovano il loro sostegno alle organizzazioni che operano nel mondo. Il 40% dei fondi raccolti arrivano proprio dai donatori individuali, mentre il 60% da proventi istituzionali come l'Aics, l'Unione europea, gli enti locali, le Agenzie delle Nazioni Unite, ma anche dal 5 per mille, fondazioni, aziende, chiese.

«Come qualsiasi altra impresa - dice Paola Crestani, la presidente di Link2007, un altro coordinamento di storiche grandi ong - ci troviamo a fronteggiare le difficoltà della pandemia sul campo». Più del 90% delle organizzazioni italiane, sempre secondo una rilevazione di Open Cooperazione, ha dovuto modificare o ridurre le proprie attività all'estero, anche se nella maggior parte dei casi i cooperanti sono rimasti sul campo per organizzare la risposta alla pandemia. Nelle bidonville, nei campi profughi, nelle periferie la situazione è incandescente.

Scarseggiano dispositivi di sicurezza, acqua e cibo. Aggiunge Luca De Fraia, coordinatore della Consulta Europa-Mondo del Forum del Terzo settore: «C'è preoccupazione per i fondi pubblici e per la grande difficoltà a raccoglierli da privati dal momento che non si possono organizzare nemmeno le classiche iniziative pubbliche». Molte ong si sono attivate in Italia per l'emergenza sanitaria e per il sostegno alle persone in difficoltà, ma stanno anche attingendo alla cassa integrazione per i propri dipendenti e tutto il settore è in sofferenza. I coordinamenti nazionali Aoi, Cini e Link 2007 hanno scritto al premier Giuseppe Conte: chiedono che vengano sbloccati i fondi della cooperazione italiana del 2019 e 2020 non ancora stanziati e sia riconosciuta flessibilità nella gestione dei progetti sospesi. (Corriere)

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